Senza più fervore, infelici, smarriti e forse anche un po’ cinici omai, dopo tanti anni di crisi non solo economica, gli italiani hanno però ora una chance per ripartire. Liberarsi innanzitutto del «decisionismo» apicale e della «paura del conflitto» che ha prodotto un’involuzione della democrazia, una «reinfetazione» della rappresentanza politica e sociale. «In cerca di una nuova connettività», ripartendo dalla dimensione territoriale, possono puntare su tre «soggetti emergenti»: le donne imprenditrici, i lavoratori stranieri e i giovani che vivono all’estero. Sono loro le «energie affioranti» che ci salveranno.

È questa, all’osso, la descrizione della situazione sociale del Paese contenuta nel 47° Rapporto Censis, presentato ieri a Roma nella sede del Cnel di Villa Borghese.

La «crisi persistente» ha «profondamente fiaccato» e stremato, il sistema Italia. La spesa delle famiglie è tornata indietro di oltre dieci anni, nel 2013, una su quattro fa fatica a pagare le bollette e una su tre avrebbe problemi ad affrontare spese mediche impreviste. Dal 2009 ad oggi hanno chiuso i battenti 1,6 milioni di imprese. Il Mezzogiorno d’Italia, sempre più distante dal Nord, dove un giovane su quattro è fermo alla licenza media, registra ormai un Pil pro capite pari al 57% (17.957 euro) di quello del Centro-Nord e inferiore ai livelli di Grecia e Spagna. Eppure, evidenzia il Censis, «il crollo atteso non c’è stato». La forza di una certa cultura collettiva, la capacità di riorientare consumi e stili di vita, hanno permesso agli italiani di «sopravvivere». Ma a quale prezzo? Delusioni e rinunce hanno lasciato una ferita profonda nella società italiana, divenuta ormai «sciapa e infelice». Senza prospettive di mobilità sociale, supini davanti ad una comunicazione di massa ad effetto, devitalizzati dalla «sospensione da reinfetazione dei soggetti politici e delle forze sociali», gli italiani hanno perso quel «fervore del sale» che si respirava in passato, perfino «negli spari in strada negli anni ’70», per usare le parole del presidente del Censis, Giuseppe De Rita. Il fermento ha lasciato il posto «all’accidia, alla furbizia generalizzata, all’immoralismo diffuso, alla disabitudine al lavoro, alla crescente evasione fiscale, al disinteresse per le tematiche di governo del sistema, alle incolmabili diseguaglianze sociali».

Per questo, soprattutto per questo, i giovani tornano a emigrare, in massa. Tra il 2011 e il 2012 c’è stato un vero boom: un incremento del 28,8%, di cui il 54,1% ha meno di 35 anni. Non solo cervelli e neppure «braccia in fuga», ma «navigatori del mondo globale», persone «in cerca di connettività», è il punto di vista del direttore della Fondazione, Giuseppe Roma. Che però non convince pienamente il presidente del Cnel: «È senz’altro segno di intraprendenza, il fatto che circa 1 milione e 130 mila famiglie italiane abbiano avuto nel corso del 2013 almeno un congiunto che si è trasferito all’estero – ribatte Antonio Marzano – ma è evidente che una correlazione con la crisi esiste». Per il Censis, sono comunque loro, i giovani italiani con esperienze oltre confine, che insieme alle donne e ai nostri concittadini immigrati rappresentano le «energie affioranti» su cui questo Paese può far leva. Sono le donne imprenditrici (titolari del 23,6% delle aziende che ancora resistono, prevalentemente di piccole dimensioni o individuali, e con un incremento del 4,2% nelle società di capitali), e le donne professioniste (il 47% degli iscritti agli ordini) il «nuovo ceto borghese produttivo».

Mentre, evidenzia il rapporto, sono le imprese straniere (l’11,7% del totale) il vero volano: a fronte del 3,3% di negozi italiani che hanno chiuso dal 2009 ad oggi, quelli stranieri sono invece cresciuti del 21,3%; 85 mila imprenditori immigrati danno lavoro anche ad italiani. Ma i giovani da cosa fuggono, esattamente? E cosa cercano all’estero? Lavoro per il 51,4%, maggiori opportunità di carriera per il 67,9%, una migliore qualità della vita (54,3%), arricchire di esperienze la propria esistenza (43,2%), ma anche solo «vivere in piena libertà la propria vita sentimentale», fuggendo da pregiudizi e discriminazioni, come nel caso di omosessuali, madri single o coppie che necessitano di fecondazione eterologa (12%).

Ma per far rialzare il corpo morente dell’Italia, spiega De Rita, basterebbe seguire «il filo rosso della connettività, che non è coesione sociale né connessione tecnica». È proprio «l’insieme dei comportamenti connettivi» che ha permesso la sopravvivenza. La connettività, secondo il Censis, è orizzontale e «non può lievitare nella dimensione politica», troppo autoreferenziale e «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di mediazione necessario». D’altra parte, l’esasperato elogio della stabilità politica è servito, secondo De Rita, a «comprimere e rifiutare – nel segno della paura – il conflitto sociale e politico».

Non a caso si è evidenziato un «ritorno del decisionismo dal centro», come dimostrano i dati sull’iniziativa legislativa di governo, parlamento e regioni, a fronte delle norme entrate in vigore. Nelle ultime due legislature la quota di ddl parlamentari è del 94,4% contro il 4,4% governativi; eppure solo il 22,2% delle leggi approvate sono di iniziativa parlamentare, contro il 76,6% provenienti dal governo. A questo «ritorno» che ritorno non è, il Censis correla l’alta percentuale (il 56% contro la media europea del 42%) di italiani che negli ultimi due anni non hanno avuto alcun tipo di coinvolgimento civico, «nemmeno la firma di una petizione». D’altra parte «solo l’8% dei nostri connazionali ha una frequentazione medio alta con il patrimonio culturale italiano».

Cosa è rimasto del popolo più politicizzato d’Europa di vent’anni fa? La difesa del microterritorio, sembra rispondere il Censis. Ma la bolla come «residuale partecipazione politica».