Quando Luigi Di Maio sale al Quirinale accompagnato da Giulia Grillo, Danilo Toninelli e Rocco Casalino, alcune cose sono già chiare ai parlamentari del Movimento 5 Stelle. La prima riguarda la loro stessa sopravvivenza. Quanto era trapelato dal giorno dopo il voto è stato confermato ieri da alcuni deputati: tutti gli eletti alla camera e al senato saranno ricandidati in caso di elezioni nel giro di qualche mese, in deroga al vincolo dei due mandati.

Non è cosa da poco e non è un caso che quando la notizia che l’ultimo pilastro del grillismo sta sgretolandosi dai cerberi della comunicazione grillina non arrivi nessuna smentita. Per di più, il fatto che questa rassicurazione sia circolata di nuovo, conferma che i 5 Stelle si preparano a tempi lunghi per la formazione del governo e che non intendono farsi logorare. Serve che lo scenario si evolva perché gli angoli si smussino e le tensioni vengano meno.

Intanto il calendario corre. Basta qualche giorno ancora, dopo il secondo giro di consultazioni annunciato da Mattarella, per chiudere i termini della prima finestra utile. Dunque, addio allo scenario di un’improbabile ricorso alle urne per di più con il Rosatellum all’inizio del prossimo mese di giugno. Per la prima data possibile si slitterebbe ad ottobre. I vertici pentastellati sanno che bisogna attrezzarsi a tenere le trincee, rassicurare i neoeletti che non vogliono uscire di scena e allungare la vita politica dei più anziani che già starebbero consumando la seconda carica elettiva.

Uno di quelli che si trova in prima linea è Vito Crimi, senatore eletto alla presidenza della commissione speciale che dovrà vagliare gli atti del governo Gentiloni nell’attesa che si formi un nuovo esecutivo: ventisette senatori siederanno attorno un tavolo fornendo modelli per intese su più larga scala. Come quella, che ha unito centrodestra e M5S, per eleggere Crimi stesso.

Lui rivendica la centralità politica di quest’organo temporaneo. «Questa commissione riveste un ruolo importante – spiega lo storico esponente del M5S bresciano – fino alla formazione del nuovo governo sarà il luogo in cui tutte le forze politiche potranno e dovranno confrontarsi nell’interesse unico dei cittadini».

Poi Di Maio, reduce dalla consultazione con Mattarella, ridefinisce il contesto. Accanto alle parole d’ordine di queste settimane (il rifiuto di governi tecnici o di scopo e il «rispetto della volontà popolare», che allude al diritto di prelazione sulla presidenza del consiglio) approfitta del veto posto da Berlusconi sul M5S e apre i due forni di Pd e Lega, da incontrare, dice, «in sede istituzionale». Il primo sembra già chiuso, nonostante le avances dei giorni scorsi. Il secondo si rinfocola quando il numero due leghista Giancarlo Giorgetti mette nuova legna da ardere, ricordando al leader azzurro che i veti sono poco utili e che col M5S e con la fetta di voti che rappresenta «bisogna fare i conti». È solo un primo sommovimento. Ma è il segnale che Di Maio e i suoi attendevano. E che arriva persino prima del previsto.