«È morto di complicazioni polmonari a Ghazni», in Afghanistan, nel mese di novembre.  Alcune fonti anonime raccolte in Afghanistan e Pakistan dal giornale saudita in lingua inglese Arabnews sembrano confermare una notizia che circola da una decina di giorni: è morto Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda. Veterano del jihad, barba bianca e sguardo stanco, più di 40 anni di logorante militanza alle spalle, il vecchio al-Zawahiri viene dato malato da anni. Anche lui, come molti altri leader jihadisti, è «morto» in più occasioni. Questa volta le voci, iniziate a diffondersi nei circoli jihadisti, si rafforzano tra loro, ma la conferma definitiva potrà arrivare soltanto da al-Qaeda, l’organizzazione che ha contribuito a fondare e che ha traghettato oltre gli ostacoli più difficili.

Nato nel 1951 al Cairo, al-Zawahiri aderisce alla causa islamista già all’età di quindici anni. È il 1966. Sayyid Qutb – ideologo e pedagogista autore di testi cruciali per l’islamismo radicale – viene impiccato. Ayman al-Zawahiri, il cui zio materno era intimo frequentatore di Qutb, dà vita a una cellula clandestina per rovesciare il governo egiziano. Sogna di realizzare quell’«avanguardia dei pionieri» descritta nei testi rivoluzionari di Qutb. Ci riuscirà almeno in parte a Peshawar, in Pakistan, dove arriva come medico e dove negli anni Novanta consolida il connubio con il saudita Osama bin Laden, promotore della guerriglia anti-sovietica.

Dopo che Bin Laden, nel maggio 2011, viene ucciso da un commando di Navy Seal statunitensi nel covo di Abbottabad, in Pakistan, al-Zawahiri diventa il capo dell’organizzazione. All’epoca molti commentatori danno l’organizzazione per morta, vedono in al-Zawahiri un leader senza carisma, spacciato. Il contesto è difficile. Le sfide più importanti sono due, cruciali. La morte di bin Laden e le primavere arabe, che confutano platealmente la retorica jihadista sulla possibilità di cambiare lo stato delle cose in Medio oriente solo attraverso la violenza. Al-Qaeda perde legittimità e consenso. Al-Zawahiri aspetta.

Sa che le rivoluzioni rimangono sempre incompiute, destinate a tradire le aspettative innescate. Poi, nel luglio 2013, il presidente egiziano Morsi, rappresentante dei Fratelli musulmani, viene sostituito dal regime militare di al-Sisi: per i propagandisti di al-Qaeda è la dimostrazione che la democrazia è un’impostura.

I cambiamenti possono avvenire soltanto con le armi. Al-Zawahiri serra le file e fa propaganda. Indica gli obiettivi strategici del gruppo con due scritti di ampio-respiro, il Documento per il sostegno al jihad (novembre 2012) e le Linee guida generali per il jihad (settembre 2013). Il 2013 è anche l’anno della sfida dell’impaziente Abu Bakr al-Baghdadi. Che rompe con i veterani e scalpita per edificare lo Stato islamico. Nel 2014 la rottura. E l’inizio della contesa per l’egemonia della galassia jihadista.

La strategia qaedista è opposta rispetto a quella dello Stato islamico: la legittimità passa per il consenso locale, non per l’imposizione e la violenza settaria. Servono occultamento e pragmatismo, bassa esposizione mediatica, radicamento territoriale. Al-Qaeda punta a rafforzare i legami sociali, con una concezione meno esclusivista e dottrinaria del jihad, più pragmatica. Non si tratta di una scelta morale, ma strategica: da gruppo di avanguardia a movimento popolare. A rischio di eccessiva decentralizzazione, certo, ma con una minora esposizione militare alla controffensiva dei nemici. È l’eredità che lascia ai militanti del gruppo. Sempre che sia morto davvero.