La Libia scivola nelle braccia della Francia mentre l’Italia si affanna a trovare un governo. La «quarta sponda» giolittiana è il simbolo – e più di un simbolo – della crisi italiana sul palcoscenico internazionale. Se ne parla meno dell’euro ma forse è anche peggio. Perché alle due del pomeriggio di lunedì, quando ieri mi riceveva l’ambasciatore francese, non sapevamo neppure chi mandare a Parigi. Sotto gli affreschi del Salviati a Palazzo Farnese squilla il cellulare dell’ambasciatore Christian Masset: «Dall’Eliseo mi annunciano la partecipazione al vertice di domani a Parigi (oggi per chi legge, ndr) anche del premier algerino, per l’Italia credo che verrà Elisabetta Belloni, segretario generale degli Esteri, ma attendiamo una conferma».

Masset, ottimo diplomatico, ha il compito di indorare la pillola: la conferenza di Parigi sulla Libia per convocare elezioni e riunificare le forze armate, afferma, è stata decisa «con la piena cooperazione dell’Italia». E non caso avviene il giorno prima della discussione del Parlamento europeo sugli ingenti fondi libici all’estero congelati dal Consiglio di sicurezza Onu dopo la guerra della Nato del marzo 2011.

L’obiettivo è evidente: evitare nuove tensioni con Roma che esplosero quando l’Italia nel luglio del 2017 accolse con irritazione il vertice messo in piedi da Emanuel Macron alla Celle Saint Cloud tra il presidente del governo di Tripoli Fayez Sarraj, vicino a Roma, e il generale Khalifa Haftar, signore della Cirenaica, alleato di Parigi, dell’Egitto e della Russia. Ma la sostanza non cambia.

L’Italia ha perso il suo ruolo di attore di primo piano in Libia, nonostante la presenza dell’Eni che rimane il maggiore operatore petrolifero straniero del Paese e il gestore del gasdotto Greenstream con la Sicilia. La Libia è la cartina di tornasole della crisi italiana. L’Italia è un Paese ancora più vulnerabile da quando nel 2011 la Francia di Sarkozy, con Gran Bretagna e Stati Uniti, decise di far fuori il Colonnello Gheddafi, il nostro più importante alleato nel Mediterraneo che soltanto sei mesi prima, il 30 agosto 2010, Roma aveva ricevuto in pompa magna firmando contratti per decine di miliardi di euro e affidandosi al raìs libico per il controllo dei flussi migratori. Non solo l’Italia non lo ha difeso ma ha bombardato il Colonnello cedendo ai ricatti dei suoi alleati della Nato che minacciavano di colpire i terminali dell’Eni.

Ma qual è il partner della sponda Sud, e anche di quella Nord, che può ritenere affidabile, dopo questa prova di insipienza, un nostro qualunque governo? Se avessimo evitato i raid, avremmo salvato almeno la faccia di un’ex potenza coloniale che interviene soltanto perché ce l’hanno spinta gli altri. Inutile lamentarsi adesso dei populismi italici: la strada è stata spianata da una classe dirigente piuttosto inetta e che forse non sarà seguita da una migliore. Quella è stata la maggiore sconfitta dell’Italia dalla seconda guerra mondiale. Con conseguenze devastanti: perdite in denaro colossali e un’ondata migratoria che, anno dopo anno, ha destabilizzato il quadro politico del Paese diventando uno degli argomenti principali dell’ultima campagna elettorale. Da quel 2011 gli alleati e concorrenti dell’Italia hanno minato i nostri interessi lasciandoci soli e allo sbando.

Mentre a Roma si consuma la crisi politica più lacerante degli ultimi decenni, Macron convoca così a Parigi una conferenza internazionale sulla Libia che «sotto l’egida delle Nazioni Unite» deve fissare la data delle elezioni. Che cosa sta facendo Macron? In poche parole, sotto il naso dell’Italia, sta tentando di portarsi via quel che resta della Libia, operazione fallita da Sarkozy, oggi sotto indagine per i finanziamenti di Gheddafi alle sue campagne elettorali. «Del resto – spiega Masset – con quell’intervento allora dovevamo compensare lo smacco appena subito in Tunisia con la caduta di Ben Alì». Il presidente francese Macron, che si era detto pronto a collaborare con l’ex premier incaricato Conte (senza sapere, come tutti, neppure chi fosse) per poi precipitarsi ieri a schierarsi con Mattarella, riunisce quindi un nutrito corteo di leader libici e di potenze internazionali con l’obiettivo di sottrarre all’Italia l’iniziativa politica ed economica in Libia, petrolio compreso.

Non c’è da meravigliarsi. Macron va Washington da Trump e a San Pietroburgo da Putin mentre gli italiani sono assenti politicamente dalla scena. Gode anche dell’appoggio degli americani visto che la Francia invia mille soldati in Siria ad alleggerire il compito degli Stati Uniti e collabora con gli Usa anche in Africa dove guida l’Operazione Barkhane insieme ai Paesi del G-5 (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania). Operazione da cui l’Italia, che puntava a inviare un modesto contingente a Niamey per il controllo dei flussi migratori, è stata esclusa. Possiamo sperare nei litigi tra i libici e tra le potenze coinvolte in Tripolitania e Cirenaica per essere «richiamati» in servizio in Libia con le nostre imprese: il lavoro, quando c’è, è l’unica arma che abbiamo.

Così vanno le cose per i fantaccini che non hanno né generali né governi.