Un diner decrepito, avvinghiato ai binari di una linea merci del profondo Sud. Al bancone, uomini con i capelli lunghi e grigi, affaticati dal lavoro e dall’abitudine. L’aria così densa di caffè e del grasso che frigge sulla piastra da tagliarsi con il coltello. Le gambe morbide di una bambina piccolissima, ancora un poco sicure su sé stesse, che si fanno strada tra i piatti. Dai riccioli neri, lo squarcio di un occhio azzurro e inquisitore, avido di scoprire il mondo. È Wendy, uno dei film più attesi a Sundance 2020, e il ritorno alla regia di Benh Zeitlin -il giovane newyorkese inghiottito dall’immaginario poetico del meridione americano che, nel 2012, aveva conquistato Park City (e Cannes e l’Academy, che nominò il suo esordio in tre categorie) con Beasts of the Southern Wild. Autore dalla visione originalissima, gelosamente custodita grazie a un process che implica lunghe lavorazioni, preferibilmente in una wilderness rigogliosa, nelle cui ombre segrete (e difficilmente raggiungibili dagli executive degli studios) “scatenare” la forza eversiva di bambini (ma non solo) che non hanno mai fatto un film, invece di accettare le offerte che gli arrivavano da tutte le parti, dopo Beasts, Zeitlin ha optato per un progetto ancora più difficile, un film che con sua sorella -co-sceneggiatrice- sognava di fare fin da piccolo, re-immaginando la storia di Peter Pan dal punto di vista di Wendy. Dopo quasi otto anni di full immersion, Wendy è arrivato sull’immenso schermo dell’Eccles Theter da cui era partita la fortuna di Beasts; Zeitlin, venuto a presentarlo, non più un ragazzo dall’aria di folletto, ma un uomo che sfiora i quarant’anni. E in un certo senso, questo buco nero/auto-esilio così lungo ci sta, visto che ogni storia di Peter Pan è una storia sul (non) passare del tempo.

Bastano pochi stacchi, tra il diner (niente a che vedere con l’Inghilterra edoardiana), la padrona (è la mamma di Wendy), gli avventori, i bambini e i binari arrugginiti, a catapultarci nell’etno-fantastico tipico di Zeitlin, un universo ad alta qualità immersiva dove documentario e fantasy coesistono, trasportati dalle polifonie di Dan Romer e dalla macchina inarrestabile di Sturla Brandth Grovlen. Il movimento costante nei film di Zeitlin, e il suo amore per il mondo naturale lo hanno fatto spesso paragonare a una versione junior e accelerata di Malick. In realtà i suoi film vibrano di energia pagana e magie irriverenti, non di trascendenza. Il treno come un mostro ruggente nella notte, con fari che proiettano sui muri scalcinati della casa ombre di creature fantastiche rapirà Wendy (Devine France) e i suoi due fratelli gemelli, alla scoperta di un’isola verdissima (siamo nei Caraibi) popolata di bambini selvatici, alla cui testa è Peter (Yashua Mack), un rasta minuscolo e indemoniato che gioca con le eruzioni del vulcano locale e chiama “mamma” un enorme, luminescente pesce/iguana che è la fonte dei suoi poteri, tra cui quello di non invecchiare mai. Dopo una prima parte folgorante, che include l’arrivo sull’Isola che non c’è più e l’incontro con Peter e i Lost Boys, Zeitlin si avvita un po’ in un plot tra Il signore delle mosche e -alla ricerca di una storia delle origini per Capitan Uncino- A High Wind in Jamaica. Anche la riflessione sull’invecchiare diventa un po’ troppo laboriosa e parlata. Ma France (una Wendy un po’ meno giudiziosa del solito, molto magnetica) e Mack sono splendidi, e il film rimane pieno di trovate bellissime. La Searchlight non era ancora diventata di proprietà della Disney quando ha messo in produzione il film, ma è a un oggetto “organico” e audace come questo che lo studio di Topolino dovrebbe guardare per i remake dei suoi cartoon classici piuttosto che alle realtà digitalizzate che sta sfornando un dopo l’altra.

Un ritorno a Sundance atteso da anni anche quello di Miranda July (l’ultima volta era stata al festival nove anni fa, con The Future; nel frattempo ha scritto anche un romanzo). Il nuovo lavoro dell’artista multimediale (ha in uscita un libro antologico ad aprile) è Kajillionaire, commedia su una famiglia di truffatori losangelini, in cui Evan Rachel Wood sfoggia un’impassibilità e una fisicità slapstick quasi keatoniane. L’attrice di The Wrestler e Westworld è Old Dolio; Debra Winger e Richard Jenkins i genitori con cui vive in un locale costantemente minacciato dall’irruzione di montagne di schiuma provenienti dall’adiacente fabbrica di bolle di sapone ai cui proprietari devono tre mesi di affitto. Di marca completamente opposta rispetto a quello avvolgente di Zeitlin, il surrealismo di July è tutto stacchi frontali, emozioni prosciugate. La famiglia di Old Dolio ha un paio di trucchetti con cui tira avanti, tra cui scassinare caselle postali. Li vediamo ripetutamente in azione come in una performance teatrale. Il film decolla infatti solo quando un agente esterno (l’attrice Gina Rodriguez) fora la bolla in cui esistono e, a poco a poco, sgela l’autistica indifferenza della sua coetanea. Un film piacevolmente spietato contro gli stereotipi della famiglia, Kajillionaire è al meglio quando lavora sul rapporto tra le due ragazze. Bellissima anche la scena quando i quattro truffatori si trovano nella casa di un uomo che sta morendo.