Sulla tela di fondo si proietta il film in cui l’Ucraina, nel giro di dieci anni, raggiungerà l’autosufficienza energetica smarcandosi dalla dipendenza da Mosca.

Ma, al momento, e per 4-5 anni non ci sono possibilità di rimpiazzare la quota ingente che Kiev riceve da Mosca. Si ridurranno per forza i consumi interni in seguito al giro di vite che imporrà il Fmi, ma resteranno comunque elevati, poiché non si potranno spingere oltre certi limiti i tagli previsti, altrimenti la gente tornerà in piazza e questa volta non contro la Russia.

Nel primo tempo del film si vede l’arrivo in Ucraina di gas naturale liquefatto (gnl) di provenienza oltreatlantica: Kerry lo sta promettendo per dimostrare la consistenza dell’impegno americano. La mossa è tutta politica, volta ad irritare Mosca ma poco percorribile in tempi brevi : le prime esportazioni dal Golfo del Messico inizieranno solo a partire dal 2017. Inoltre, le compagnie che vogliono esportare, più che all’Europa, guardano al mercato asiatico, dove hanno già preso accordi: il margine di guadagno è almeno di un terzo superiore a quello del mercato europeo, 16 $ Mbtu contro 11$ Mbtu (Mbtu, Million british thermal unit, unità di misura di potere calorifero per produrre energia).

Tutta l’operazione di cui si parla, in realtà serve alla lobby che produce gas da scisti e che ci sta perdendo, perché il prezzo del gas in Usa è ancora troppo basso (intorno ai 5$ Mbtu). La crisi ucraina viene a dare loro una mano per premere sull’Amministrazione Obama che può decidere di liberalizzare l’export di gas prodotto negli Usa. Manovra che viene rafforzata da una richiesta dei 4 paesi del Visegrad Group, in quanto paesi Nato da aiutare per «l’emergenza approvvigionamenti creata dalla crisi ucraina». In effetti la loro dipendenza da Mosca tocca dall’80 al 90%, in quanto ha subito un incremento inatteso nel 2013 che ha fatto fregare le mani a Gazprom.

In ogni caso bisogna che Kiev possa disporre di un terminale di rigassificazione ad Odessa (impianto costoso, chi lo paga?) che potrebbe servire per approvvigionamenti di gnl più concreti, magari provenienti dal Qatar grazie ad accordi triangolari Kiev-Ankara-Doha (ovvero tra le Big Oil).

All’Ucraina si danno speranze di autosufficienza energetica, anzi di divenire un «hub regionale del gas» col miraggio di replicare in casa la rivoluzione dello shale gas che si è verificata negli Usa, sviluppando i depositi di shale gas che si trovano nell’ovest ed est del paese. Le Big Oil considerano L’Ucraina un territorio ideale perché non c’è scarsa contestazione ambientalista e in questo momento l’attuale ed i governi hanno bisogno di creare un clima di business pur di avere i crediti del FMI che la devono salvare dalla bancarotta. Così la Chevron ad ovest e la Shell ad est hanno trattato nel 2013 con Yanukovich concessioni a termini favorevoli per 50 anni fino ad esaurimento delle risorse. Intanto pare che la Chevron si stia assicurando anche la proprietà della rete nazionale dei gasdotti ucraini (la Natfegas) che sarà privatizzata.

Infatti è in atto tutta una serie di «pignoramenti» favoriti dal Fondo Monetario per tutelarsi dai crediti che concederà.

Nel conteggio che porta a delineare una dimensione da hub ucraino del gas c’è anche l’offshore della Crimea. Mentre ancora trattava con Bruxelles e fino al gennaio 2014, Yanukovich perfezionava accordi con ExxonMobil e Shell per un importante programma esplorativo del blocco offshore Skifska situato sul versante nord occidental del Mar Nero. Una ulteriore iniziativa, da cui era stata scartata la russa Lukoil, che mirava a diminuire la dipendenza energetica da Mosca e che aveva fatto imbestialire Putin.

Ora però tutto il progetto Skifska , e non solo, secondo la rivista finanziaria Bloomberg si trova in una sorta di «legal limbo», visto l’esito del referendum in Crimea.

Sia riassorbita come nuova frontiera della Federazione Russa, sia riciclata in una entità totalmente autonoma, la penisola avrà una Eez (Exclusive Economic Zone) che sfuggirà alla giurisdizione ucraina. Una grave perdita per Kiev, visto che le risorse importanti di idrocarburi convenzionali sono tutte concentrate sui due versanti ovest ed est dell’offshore profondo della Crimea. Le autorità amministrative locali non hanno perso tempo ad assumere come automaticamente legittimo il controllo offshore, sia nel Mar Nero che nel Mare di Azov, spingendosi a dire che vogliono affidare la gestione degli assets petroliferi e gasiferi alla società Gazprom (ovvero a Putin).

Ecco pronto un’altro casus belli, questa volta sulla delimitazione delle zone economiche esclusive tra Ukraina e Russia che verrebbero inevitabilmente a sovrapporsi.

Un puzzle come quello delle isole Senkaku tra Cina e Giappone.

(domani segue la 2° parte: «La sfida sul marketing europeo del gas»