Si usa dire che le traduzioni «invecchiano»; il luogo comune indica che con il continuo mutare degli orizzonti culturali la ritraduzione dei classici è non solo auspicabile ma necessaria: per rimettere in circolo ciò che sembrava un possesso acclarato, consegnato all’illusoria e spesso ingessata permanenza di versioni canoniche. Tanto più problematico sarà ritradurre un libro già classico alla sua uscita come Ulysses, al contempo supremo azzardo, prototipo e esito altissimo dell’avanguardia novecentesca. Un libro in cui la traduzione (intesa come attività incessante di decodifica mentale da parte del lettore) è la molla stessa di quel procedere a strappi, a balzi, a scoppi e sbandamenti che incarna il movimento del pensiero; e in cui ogni eco o barlume si fa immediatamente testo, suono, disegnando in progressione sulle pagine una mappa della coscienza, idolo e demoniaco primattore del secolo passato. La coscienza in cammino di un io-tutti divenuta linguaggio.
L’anno scorso, con la caduta dei diritti sull’opera di James Joyce, alla traduzione «autorizzata» del 1960 di Giulio De Angelis, superlativa per qualità di resa e creatività ma forse troppo alta per il nostro orecchio, è venuta a affiancarsi quella di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi, con il merito di recuperare la irishness del romanzo e la sua vocazione popolare e collettiva, nell’ottica di un common reader che, specchiandosi nei flussi più impalpabili del pensiero, apprenda dal testo stesso sia le sue regole di interpretazione, sia un saper vivere democratico e tollerante. Dato per certo che tradurre la parola onnipotente di Joyce è impossibile, proprio per questo l’impresa va tentata. Se ogni versione non può che essere gesto calato nella storia, e inoltre atto implicito di commento nato da una visione dell’autore con cui si ingaggia il corpo a corpo così come da un’idea di lettore, non bisogna pensare che le varie traduzioni di uno stesso libro siano in febbrile agonismo tra loro per soppiantarsi a vicenda; a parità di competenza e di impegno, piuttosto si completano. A una più efficace o adeguata sul piano informativo in un dato momento storico e contesto di ricezione se ne aggiungerà un’altra che punti a rieseguire le armoniche forti del testo rivivendole nella nuova, nell’altra lingua. E in ogni caso, se a porvi mano è uno scrittore, è fatale che balzi sulla scena la presenza di quel primum quasi fisico che la lingua è per lui. Il lavoro di Gianni Celati, uscito dopo anni di attesa (Ulisse, Einaudi «Letture», pp. 996, e 28) si mostra subito per ciò che non è né vuole essere, a partire dalla nettezza di certe scelte lessicali, esibite quasi come petizione di principio: basti, nelle prime battute, l’esortazione di Buck Mulligan a un esitante Dedalus (Come up, you fearful jesuit!), resa con un singolare «disgustoso d’un gesuita» che si stacca dai più affini «pauroso» (De Angelis) e «spaurito» (Terrinoni).
Per lo scrittore di Parlamenti buffi e Verso la foce la macchina verbale di Ulysses, più che un romanzo, è un fiume di pensiero parlato cui abbandonarsi sull’onda di un’immaginazione sonora, tra mosse di voce, pause estatiche, ritorni e trapassi, incagliamenti, apparizioni e sdrucciolii, senza la pretesa di «capire tutto»; qui le gerarchie sono abolite, tutto ha la stessa dignità, dalle canzonette alle insegne pubblicitarie alle citazioni della Bibbia e di Shakespeare, tutto è umano e mobile e carico della grazia casuale di ciò che vive. Senza l’ausilio di quegli apparati di note che invece distinguevano le altre versioni, rieseguendo la partitura joyciana dotata di un ventaglio lessicale non paragonabile a alcun altro testo simile, Celati si orienta verso una propria personale «stralingua» ispirata alla furia deformante di Rabelais e Folengo – e forse, anche sul piano del ritmo, memore del Céline di Guignol’s band da lui pure tradotto. Il «disordine delle parole» creato dalla continua mutevolezza del testo ci consegna a una peculiare estraneità, come l’inglese joyciano è per molti versi straniero all’inglese istituzionale. Perché è suscitando nel lettore, anch’egli a suo modo traduttore fantasticante, l’esperienza di quello sfrenato potere liberatorio impresso prima di tutto dal suono, cantilenato nella testa, che Joyce agisce.
Il lungo ascolto di Ulysses da parte di Celati intende perciò sfociare in una forza di reinvenzione che attecchisca in un mondo unico e si esprima in un passo mentale solo suo, facendosi voce volutamente eccentrica, fuori ordinanza rispetto alla non-lingua della romanzeria di mercato odierna.
A sollecitare il traduttore è il corpo fisico della parola: alla ricerca di un suo teatrale sapore furfantesco, nei capitoli dove trionfa lo stile orale come quello del Ciclope, lui affonda le mani nelle cadenze dei gerghi padani o latamente settentrionali (sfrombo, lingera, slumare, baito, sbiluciare…). Una polverina desueta si stende su questo armamentario al contempo ricercato e popolare, sferzante e reticente, con un gusto di irrisione che emerge meglio nella seconda parte, nei momenti in cui Joyce insiste funambolicamente sul pedale della parodia del sublime. O laddove un puro rumore è il nodo in cui si addensano le allusioni più subdole («Tlin tlin tlin calessino va’!», ovvero il rivale di Bloom, Boylan, che sta per raggiungere il letto di sua moglie Molly); e se appunto si volesse interrogare Ulysses sulla musica, risponderebbe l’ouverture delle Sirene, dove annunciando e intrecciando i temi del capitolo fa le sue prove acustiche il soundsense («Bronzo con Oro udito il suon di zoccoli, d’acciai rombanti»); per non dire delle allitterazioni: «Tic cieco cammina ticchettando un tic via l’altro», «s’ingozzava di zuppa gorgogliante giù per il suo gorgozzule».
Di Ulysses Celati insegue insomma anche la qualità incantatoria della parola, coessenziale al suo stesso suono, prima e al di là del senso, che sfonda il diaframma tra materia e simbolo e si impadronisce del lettore per precipitarlo in uno spaesamento, in una deriva fantasticante al cospetto della lingua nella sua interezza storica. Tipica di questa esperienza di lettura è la sospensione tra le due spinte su cui si regge il romanzo: la tentazione del caos e quella dell’ordine, l’abbandono alla corrente e il clic che sveglia connessioni impensate tra dati di realtà lontani, generando un nuovo abito percettivo. Così la celebrazione della meraviglia di un giorno come tanti, dell’eroismo normale dell’essere umani, di astuzie e crolli di un’umanità bonariamente sbilenca non resta confinata nella letteratura.
Ovvio che la relativa prevalenza della tela sonora sull’impianto narrativo rischi di allentare quelle reti di ricorsi e rimandi che quasi danno l’impressione di un Ulysses che si autogenera, nel continuo fluire fra mondo individuale e condiviso, dentro e fuori, mente e realtà. Ed è ardua la sfida di precipitare ogni riferimento e allusione direttamente nel solo testo: una elaborazione sofferta, soggetta anch’essa a sbandamenti e ritorni, emerge in certe giunture, dove suggestioni individuali possono prender piede sul dato acquisito. Mentre, fra altre cose, la risoluzione delle ambiguità e degli enigmi joyciani parrebbe la spia della persistente importanza della versione De Angelis malgrado gli anni (il gioco omofonico Rose of Castille / rows of cast steel reso pur sempre con «Semiramide» ma in modo più fiacco), felicemente operante: l’arcaico Agenbite of inwit, che interviene più volte a far rintoccare il senso di colpa in Stephen, diventa un potente «morsura animi».
«La traduzione io la sento come un modo di riscrivere i libri», dice Celati in Conversazioni del vento volatore, e per lui fedeltà è «mantenere l’energia, i colori, le tonalità di un certo flusso»; ne sorge una «contentezza», quella «di non dover rendere conto alla dittatura della maggioranza». A testimoniare una posizione intensamente parziale e personale, come accade per ogni vera versione d’autore. «Potrebbe essere di tutto finché non senti le parole. Bisogna aprire le orecchie per bene».