Amal Fathy è libera. Nonostante l’ordine di scarcerazione, l’attivista (e moglie di Mohamed Lotfy, consulente della famiglia Regeni) era uscita dal carcere ma era stata trattenuta per nove giorni senza alcun motivo in una stazione di polizia. Il suo stato di salute fisica e psicologica si era gravemente deteriorato nei mesi di prigionia. Ora appare provata ma sorridente in una foto in cui riabbraccia suo marito. «Sull’asfalto» – come dicono gli egiziani quando qualcuno esce di prigione – e con un mazzo di fiori in mano.

PREOCCUPANO INVECE le condizioni di Mohammed Ramadan, noto avvocato arrestato il 10 dicembre con accuse legate al terrorismo. Il motivo? Aver pubblicato una foto su Facebook in cui indossava un gilet giallo, simbolo delle proteste francesi. Intanto il 20 dicembre si è chiuso uno dei processi più tristemente famosi dell’Egitto post-rivoluzionario. 43 imputati, tutti membri di organizzazioni internazionali per i diritti umani, sono stati definitivamente assolti da accuse legate ai finanziamenti esteri. Il caso risaliva al 2011, e le prime condanne erano arrivate nel giugno 2013, costringendo in tanti all’esilio o a ritirarsi dall’attività politica.

RESTA INVECE IN PIEDI il secondo troncone dell’inchiesta, quello che riguarda le Ong locali, nel quale figurano nomi di punta della società civile egiziana in prima linea sul fronte delle battaglie per i diritti: da Gamal Eid, dell’Arabic Network for Human Rights Information, a Hossam Bahgat, giornalista investigativo e fondatore della Egyptian Initiative for Personal Rights, fino alle fondatrici del centro Nadeem per le vittime di tortura.

Sempre in questi giorni, il 26 dicembre, in una corte allestita in un complesso di massima sicurezza del Cairo, si è svolto un altro processo dalla grande valenza storica e simbolica. Nella stessa aula sono comparsi faccia a faccia i due ex presidenti, Hosni Mubarak, cacciato dalla rivolta popolare del gennaio 2011, e Mohamed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana deposto dal colpo di stato del luglio 2013 sull’onda di una grande mobilitazione di piazza. Il primo, 90enne ormai a piede libero, è comparso non sul banco degli imputati ma in qualità di testimone. Il secondo, in carcere da oltre cinque anni in isolamento totale, era chiamato a rispondere di un’evasione di massa dalle carceri avvenuta nel corso della rivolta del 2011.

IL FANTASMA della rivoluzione, con l’ottavo anniversario che si avvicina, continua a spaventare il regime e ad animare i sogni di tanti egiziani. Gli sguardi degli attivisti oggi sono tutti puntati sulla Tunisia di nuovo in fiamme a Kasserine, e soprattutto sul vicino Sudan, travolto da un’ondata di proteste anti-austerità che hanno subito già decine di morti. Il timore di un contagio è forte e i media egiziani infatti stanno sistematicamente oscurando le notizie delle mobilitazioni.

A tenere accesa la fiaccola della dignità in Egitto sono ancora una volta gli abitanti di al-Warraq, l’isola sul Nilo a nord del Cairo minacciata di sgombero da un mega-progetto di speculazione edilizia, e che da oltre un anno resiste agli attacchi delle autorità. Dopo aver respinto le prime demolizioni nell’estate del 2017 gli abitanti hanno organizzato la resistenza ricorrendo ai tribunali e organizzandosi in un consiglio locale.

SOLO POCHI GIORNI FA l’ultima vittoria: nel giro di alcune ore migliaia di persone sono accorse da tutta l’isola per reagire al tentativo di sostituire il servizio di traghetti gestito dagli stessi abitanti – unico collegamento con la terraferma – con dei mezzi controllati dalle autorità. All’assedio imposto dal regime il consiglio degli abitanti replica senza esitare a definire «terrorista» il governo.

Per anni abbandonati, come tante periferie popolari, gli abitanti chiedono più servizi e dicono «non ci rappresenta nessuno», respingendo anche l’intervento di politici locali. Un’esperienza unica al momento in Egitto, un modello, al quale in tanti tra intellettuali e attivisti hanno espresso supporto e solidarietà. Ora l’udienza per il ricorso presentato dagli abitanti è fissata al 26 gennaio, il giorno dopo l’anniversario della rivoluzione. «Non ci resta che resistere», dicono dall’isola.