Chi dice siano 50mila, chi 60mila, chi arriva a sostenere che siano 180mila all’anno. Parliamo di quelli che in Cina vengono definiti «incidenti di massa», ovvero scioperi, rivolte, proteste. Negli ultimi anni a fronte di eventi che hanno contraddistinto lo sviluppo cinese, sono aumentati, tanto che Pechino ha chiuso i rubinetti delle informazioni, segnalando come «segreto» il dato sul numero esatto dei disordini.

Se ne parla tanto, ma cosa significano questi «incidenti di massa»? Stando al numero crescente e alle cause, sembrerebbero indicare due cose: una rinascita della lotta di classe in Cina e l’emergenza di una classe media che chiede migliori condizioni di vita, dato l’aumento dell’inquinamento nelle grandi città e le sempre più drammatiche condizioni della «sicurezza alimentare». In testa alla lista degli «incidenti di massa» ci sarebbero le proteste dei lavoratori e quelle «sociali» per l’ambiente, che stando alle ultime e non ufficiali statistiche supererebbero ormai le prime. Sono due facce della stessa medaglia, il risultato di anni di una politica economica che ha finito per espropriare lavoratori e territorio per dare vita alla locomotiva cinese. Un successo basato sullo sfruttamento della nuova forza lavoro creata dall’epoca delle riforme e poco attento all’utilizzo delle risorse circostanti. Il primo aspetto, legato al mondo del lavoro, in particolare, si inserisce nell’ambito di una riflessione politica in atto da tempo in Cina. Solo nel mese di marzo ci sono stati cinquanta scioperi, tutti contraddistinti da richieste di aumenti salariali e migliori condizioni di vita.

Proletari incompiuti

Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, o a quanto viene spesso comunicato sulla Cina, il paese della Grande Muraglia vede una riflessione politica e teorica da sempre molto attiva. In Cina viene tradotto quasi tutto quanto si affaccia nel mondo filosofico e politico (e naturalmente economico) occidentale, molto più di quanto accada il contrario. E così se spesso si fa riferimento agli scioperi o alle rivolte, quando non ai suicidi, della Foxconn, perché produce i globalmente conosciuti Iphone, poco si dice circa la produzione cinese che analizza, studia e cerca di comprendere i nuovi fenomeni lavorativi, associati alla progressione economica del paese. Lu Tu ad esempio è una sociologa cinese. Si è finta operaia e per un anno intero ha lavorato insieme ad altre persone, intervistandole e provando poi a raccogliere la propria analisi in un libro, I nuovi operai cinesi, un boom senza identità, (Zhongguo xingongren, mishi yu juechi, Pechino 2013). Quanto ha osservato Lu Tu è da tempo sotto la lente di ingrandimento di numerosi accademici cinesi, della nuova sinistra o meno.

Il processo di accumulazione capitalistico cinese iniziato negli anni Novanta, con il colpo di grazia post 1989, una vera e propria shock terapy, ha dato vita oggi a una nuova classe di lavoratori. Sono i ragazzi, quasi tutti giovani, degli anni Ottanta (i cosiddetti balinghou). Nati in campagna hanno studiato in città grazie alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni delle campagne lanciate da Deng, un processo che ha sviluppato l’innata industriosità dei cinesi (come sostiene – tra le altre cose – Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino) e ha permesso ai genitori di garantire ai figli un’istruzione fuori dai villaggi. Il problema per questi lavoratori è quello di non essere ormai né lavoratori agricoli, né urbani. Stanno in una sorta di limbo che crea l’esercito di riserva per il capitalismo cinese. Devono fare dei lavori mal pagati, una media di 130 euro al mese, costretti a vivere nelle periferie delle grandi città, ad affitti alti, non si sentono né rurali, né urbani perché hanno perso i contorni della propria identità. Eppure questa nuova classe di lavoratori è quella che – rispetto al passato – sembra disposta all’agitazione spontanea, organizzata via sms e smartphone, con chiari intenti di rivendicazione salariale e migliori condizioni di vita. Si tratta di quel fenomeno che molti studiosi in Cina definiscono di «incompleta proletarizzazione» (Pun Ngai and Lu Huilin, Unfinished Proletarianization: Self, Anger and Class Action of the Second Generation of Peasant-Workers in Reform China, Modern China, 2012).

Classe e generazione

Un sondaggio del 2006 condotto dal governo cinese aveva rilevato che oltre il 60 per cento dei laureati si sarebbe trovato negli anni a venire ad affrontare una condizione di disoccupazione. Secondo un rapporto rivelato dal ministero del Lavoro e del Welfare sociale, lo stipendio medio di questi nuovi lavoratori, definiti ancora «migranti», è di circa 1100 yuan al mese. Nel frattempo, il salario medio di studenti universitari neolaureati è sceso a circa un migliaio di yuan mensili, in linea con il trend di diminuzione dei salari visto negli ultimi anni The Current and Future Condition of China’s Working Class, Chinese Workers Editorial Collective, 2011).

Come si è arrivati a tutto questo? In Cina durante la pianificazione socialista, quando contrariamente a oggi i lavoratori e i contadini avevano largo accesso ai vertici del Partito e al welfare, il sistema dell’hukou (il certificato di residenza) aveva finito per blindare i diritti delle persone al luogo di nascita, in modo da scongiurare massicce migrazioni. Quando invece le Riforme svilupparono l’accumulazione di capitale specie nelle zone della costa cinese, la migrazione divenne una richiesta esplicita del governo. Il sistema dell’hukou garantiva però la certezza che il lavoratore sarebbe tornato in campagna dove avrebbe messo su famiglia, altrimenti sprovvista dei diritti in città. «Questa proletarizzazione è stata quindi caratterizzata da una separazione spaziale tra la produzione nelle aree urbane e la riproduzione sociale in campagna.

Questo esercito di riserva di lavoratori cinesi migranti interni, più di 200 milioni a livello nazionale, ha aiutato a ridurre non solo i costi di produzione, ma anche i costi di riproduzione sociale nelle città ospitanti negando ai lavoratori migranti rurali vari tipi di servizi sociali e di istruzione pubblica. Sì è così creata negli spazi urbani industrializzati una sotto-classe permanente» (Ngai Pun and Jenny Chan The Spatial Politics of Labor in China: Life, Labor, and a New Generation of Migrant Workers, 2011). Per questo tipo di lavoratori che costituiscono una minaccia rilevante all’ordine sociale imposto dal Partito Comunista, i dirigenti di Pechino sembrano aver già pensato alla soluzione. Visto che la parola d’ordine è «sviluppare il mercato interno», la spinta verrà data dall’urbanizzazione delle città medie, che potrebbero creare condizioni di vita migliori per questa classe di lavoratori senza identità, placandone per un certo periodo le volontà di lotta.

Potrebbe a questo punto verificarsi un fenomeno già accaduto: in Cina ogni generazione (come quella dei leader, dei registi cinematografici, degli scrittori) presenta nuove istanze, come segno preciso dello sviluppo così rapido del paese. Dopo quella degli anni Ottanta, potrebbe esserci lo scoppio delle problematiche lanciate dai figli degli anni Novanta. Cresciuti durante il boom economico, si affacceranno su un mondo del lavoro in profonda trasformazione. Che tipo di lotte e di coscienza avranno? Lo dirà – forse – la trasformazione economica e sociale in atto.