Parlando la settimana scorsa da Bruxelles, il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha annunciato la nuova strategia italiana ed europea per mettere fine agli sbarchi dei migranti. «La questione non è impedire che partano dalla Libia, ma che entrino proprio in Libia. Solo così si farà un vero passo in avanti», ha spiegato Alfano al termine di una riunione del Ppe. Un drastico cambio di direzione rispetto alle politiche intraprese fino a oggi, soprattutto perché lascia intendere, seppure senza dirlo ufficialmente, che sia Roma che Bruxelles stanno ormai accantonando l’idea di coinvolgere il sempre più debole premier libico al Serraj nei tentativi di fermare alla partenza i barconi carichi di disperati che ogni giorno arrivano sulle coste italiane.
In questa ottica – blindare le frontiere meridionali della Libia – va inteso anche il vertice che si terrà alla Farnesina il prossimo 6 luglio tra l’Ue e alcuni paesi di transito dei migranti. Con Alfano ci saranno i ministri degli Esteri di Germania, Austria, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Malta ed Estonia (a cui da domani e fino a dicembre spetta il turno di presidenza Ue), oltre alla rappresentante della politica estera dell’Unione Federica Mogherini. Per l’Africa è prevista invece la partecipazione dei ministri degli Esteri di Libia, Niger, Etiopia e Sudan, insieme ad esponenti di livello dei governi di Tunisia, Egitto e Ciad. Tra gli obiettivi dell’incontro – al quale parteciperanno anche rappresentanti dell’Oim, dell’Unhcr e dell’Onu – rafforzare le frontiere esterne dell’Ue e siglare nuovi accordi per i rimpatri, valutando anche la possibilità di aprire campi profughi a sud dei confini libici. Naturalmente in cambio di finanziamenti e mezzi destinati alla formazione di guardie di frontiera e a progetti di sviluppo nei paesi africani interessati. «L’idea – spiega il viceministro degli Esteri Mario Giro – è quella di dialogare con i paesi di origine e di transito dei migranti. Con i primi puntiamo a realizzare accordi che facilitino i rimpatri consentendo anche l’ingresso in Europa di poliziotti che aiutino nelle identificazioni dei migranti. Con i secondi invece il discorso è diverso: lo scopo è rafforzare i governi locali per evitare che si creino situazioni come quella libica, ma anche rafforzare la lotta al terrorismo e la sicurezza dei confini. Inoltre valuteremo la possibilità di aprire campi nei quali trattenere i migranti».

L’Africa si conferma quindi sempre più al centro delle strategie europee di contrasto all’immigrazione. Al punto che terrà banco anche al prossimo G20 che si terrà ad Amburgo sotto la guida tedesca, nel quale la cancelliera Merkel spera di poter lanciare un «piano Marshal» che incentivi gli investimenti privati nel continente (progetto nel quale Berlino ha già investito 300 milioni di euro). «L’Africa gioca un ruolo cruciale per l’economia mondiale, sia per il suo potenziale che per i rischi che rappresenta», ha spiegato giorni fa in un’intervista il ministro delle finanze Wolfang Schauble.

Non si tratta certo delle uniche iniziative messe in campo e l’Italia è spesso capofila di questi interventi. Ad aprile sempre Alfano ha firmato con il ministro degli Esteri del Niger un accordo che destina 50 milioni di euro per il rafforzamento delle frontiere del paese africano (accordi simili, anche se per importi inferiori, starebbero per essere raggiunti anche con Mauritania, Tunisia, Burkina Faso, Guinea a Mali), mentre a maggio il ministro degli Interni Minniti ha siglato con Niger e Ciad un accordo per l’apertura di campi profughi nei due paesi.

Sempre l’Italia, ma questa volta insieme a Portogallo, Spagna e Francia, partecipa inoltre a un progetto finanziato dall’Ue con 41,6 milioni di euro per la formazione in Mauritania, Mali, Ciad, Niger, Burkina Faso e Senegal di reparti di élite di polizia tra i cui compiti figura anche il contrasto all’immigrazione.

Infine i finanziamenti. Due giorni fa Consiglio e ’parlamento europeo hanno dato l via libera a un stanziamento di 3,3 miliardi di euro per un Fondo per lo sviluppo destinati a diventare 44 miliardi grazie al cosiddetto «effetto leva». I soldi serviranno a incentivare investimenti privati destinati a progetti di sviluppo che si spera possano creare posti di lavoro e sostenere le Pmi locali. In cambio dei finanziamenti, i paesi beneficiari devono impegnarsi nel rispetto dei diritti umani e garantire la trasparenza fiscale.