Il festival è finito, oggi con i due ultimi titoli, il molto atteso The Woman Who Left di Lav Diaz e On the Milky Road di Emir Kusturica il concorso si chiude, i giurati «guidati» dal presidente Sam Mendes cominceranno le loro discussioni. Premi a parte, che si può dire invece di questa Mostra numero 73? Al di là delle solite polemiche su fischi, buu, pubblico – quest’anno molto più numeroso, l’impressione nella frenesia delle visioni e della stanchezza e della frustrazione di perdere qualcosa di importante, è che forse un po’ meno di bulimia avrebbe giovato. Di per sé la quantità non è mai una scelta sbagliata, ma va visto se poi tutto merita di essere qui, o se non si rischia inzeppando il programma di non valorizzare le scelte forti.

Nel fitto cartellone per ora non c’è stato il «colpo di fulmine» (difficilissimo per carità) che ti porti dietro per un po’. Ci sono film con cui si può giocare accettando la scommessa dei loro universi «distopici» The Bad Batch, Nocturnal Animals, Arrival – progetti di cinema dal segno molto personale (Spira Mirabilis), spudoratezza (l’universo di Malick), tonfi (Escalante, Piuma, il punitivo Brimstone)..

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A dover abbozzare una «tendenza» l’impressione è che molti dei film in gara condividano l’ambizione teorica di rivisitare i generi e l’immaginario, il postmoderno e la citazione – vedi La La Land di Chazelle o Frantz di Ozon ma sull’uso delle apparenze in conflitto con la verità della Storia riflette anche Jackie di Larrain – non sempre controllata e, soprattutto, non sempre origine di una seduttiva energia filmica. Anche se poi aspettarsi una «linea editoriale» da grossi festival come questo (o Cannes o Berlino) appare ormai un esercizio di inutile retorica.

Questi giorni, terzo e ultimo titolo italiano in gara, non è invece un film «teorico» nel senso che il regista, Giuseppe Piccioni, nei suoi film più che da un obiettivo parte sempre dalla storia che vuole raccontare, e a questa accorda messinscena, narrazione, un lavoro sempre magnifico con i suoi attori. Il che non vuol dire che non vi sia «teoria», anzi Piccioni tra i nostri registi è uno dei più raffinati, ma non utilizza un involucro imposto «a priori», una condizione a cui sottomettere il piacere di filmare. Esponente di quella generazione del cinema italiano apparsa negli anni Ottanta – l’esordio, Il grande Blek è dell’87 – Piccioni è un regista non etichettabile, perché sia nella leggerezza della commedia che in storie più dure e dolorose (Giulia non esce la sera) appare libero da quella «tradizione» del cinema italiano (commedia in testa) a cui sembra per forza, e specie appunto nella sua generazione, si debba guardare.

Questi giorni è una storia d’amore e di amicizia, e insieme un romanzo di formazione (ispirato al racconto inedito di Marta Bertini, Color betulla giovane) nel quale a crescere, o meglio a cambiare, sono però un po’ tutti, gli adulti e i ragazzi, le madri e i figli. Liliana – Maria Roveran, un talento speciale, rivelato in Piccola patria di Alessandro Rossetto – scopre di essere malata, un cancro che sembra impossibile accettare alla sua età, tra sogni di avventure lontane da quella cittadina di provincia mentre Caterina (Marta Gastini), l’amica del cuore innamorata di lei da sempre, sta per andare a Belgrado, e Anna (Caterina Le Caselle) quella «diversa»” da loro, fragilmente attaccata alle sue certezze – il ragazzo, lo studio del violino – sta per avere un figlio. L’altra amica del cuore, Angela (Laura Adriani) – bella e seduttiva ha un compagno che la prende e la lascia, lui è ricco, famiglia molto borghese, lei invece ha un padre despota (Rubini) e la mamma succube che cucina sempre polpette.

Liliana vive con la mamma parrucchiera (bravissima Margherita Buy) molto corteggiata, le due si guardano allo specchio e fanno a gara a chi è più bella ma in fondo la ragazza la odia anche un po’ questa madre svaporata, truccatissima, che cerca di farla somigliare a sé. In segreto è innamorata del suo professore (Timi), è una allieva brillante, lui la segue per la tesi… Ma della malattia non dice niente a nessuno, né alla mamma né alle amiche, fino a quando però riuscirà a nasconderla?

In macchina le quattro ragazze partono in un on the road tutto femminile per accompagnare Caterina a Belgrado, e se c’è una caratteristica che unisce i film di Piccioni è proprio quella di riuscire a creare (dote rara nel nostro cinema) delle figure di donna sfaccettate, delicate, piene di dolcezza e di verità (possiamo pensare a Pietrangeli se dobbiamo cercare un riferimenti nel passato), trovando le giuste corrispondenze nelle sue attrici. Non è facile dare vita a quattro giovani ventenni alla fine dell’adolescenza, alle loro pulsioni conflittuali che si inseguono come in una folle corsa di fronte all’enigma del futuro: la vita cosa farne, cosa accadrà, l’universo in divenire della giovinezza e il suo spavento. Lasciarsi portare via dagli incontri spensierati, dagli amori a prima vista, da un bacio coi capelli bagnati, dalla sospensione del tempo quotidiano in cui svaniscono le decisioni prese, il dolore, l’angoscia, l’obbligo di «scegliere», il presente che solo a distanza riuscirà a prendere una forma, qualunque essa sia.

E negli accenni di melodramma, la malattia, la paura, il rischio di un eccesso dolciastro era molto forte. Invece Piccioni che è anche autore della sceneggiatura con Chiara Atalanta Ridolfi e Pierpaolo Pironte guida con delicatezza e pudore le sfide sempre importanti nella loro dimensione quotidiana che incontrano le sue protagoniste, ne sa guardare i momenti di spaesamento, le incertezze e insieme l’energia che si mischiano con naturalezza confondendosi come i loro sentimenti. È la vita che scorre nelle sue infinite sfumature, in una dimensione «ordinaria», quella di una relazione fatta di frammenti, di slanci e di fratture, che la macchina da presa cattura e rende storia senza utilizzare i contenitori «generazionali» anche se l’orizzonte delle protagoniste è quello di oggi, ne condivide le incertezze, gli entusiasmi, le parole. Le conosciamo lì, in quel momento, è il movimento che attraversano che il film segue, quel tempo breve in cui però si dispiegano molte possibilità, un orizzonte aperto, in divenire, un flusso impalpabile di delicata intensità. Il piacere di un cinema che sa ancora sorprendersi di sé stesso.