Bloccato per più di un anno dal Covid, e a seguire la prima di Cannes, il luglio scorso, The French Dispacth di Wes Anderson arriva al New York Film Festival due settimane prima dell’uscita nelle sale Usa (in Italia lo vedremo a partire dall’11 novembre). Se il titolo, il cast, gli sfondi (che integrano di miniature minuziosamente dettagliate alle strade della cittadina aquitana di Angouleme), la consuetudine (woodyalleniana ormai, al momento Anderson sta girando in Spagna) con cui il regista di I Tenembaum lavora dentro al, e sul, Vecchio Continente fanno pensare a un film molto francese, l’anima di questa lettera d’amore al giornalismo sta, in realtà, dentro al cuore di Manhattan. Impermeabile tutt’ora agli imperativi del news cycle, e per decenni (fino all’era Tina Brown) all’uso delle fotografie e persino a quello di un indice (il che ti obbligava ad esplorare con attenzione ogni numero, assaggiando qua e là gli articoli chilometrici, almeno per capire di cosa si trattava), il settimanale New Yorker è l’ispirazione del Liberty Kansas Evening Sun, il giornale immaginario nella cui redazione francese, nell’immaginaria cittadina di Ennui-sur-Blasé, Anderson, ha ambientato il nuovo film.

CON LE SUE COPERTINE a disegni colorati, le vignette all’interno rigorosamente in bianco e nero, spesso così sottili da essere impenetrabili e, prima che internet ne affondasse il mercato, le pubblicità di oggetti congelati nel tempo (cappelli di pelo da trapper, libri rari, filetto del Wisconsin, maglioncini norvegesi reinterpretati da maglierie del Maine, e l’immancabile crociera in Alaska) il New Yorker potrebbe essere una rivista creata per un film di Wes Anderson. Il realtà, il regista texano, che la legge e la colleziona da quando era ragazzo, suggerisce che il suo cinema è nato anche un po’ da quelle pagine, a cui French Dispatch rende un appassionato omaggio. Non è il grande giornalismo investigativo sulla politica, alla Bernstein e Woodward, ma quello più letterario, eccentrico, e decentrato (rispetto alle maiuscole dell’attualità) incarnato da autori come Joseph Campbell, Lillian Ross, Luc Sante e James Baldwin, che spesso erano anche romanzieri e che, negli anni, hanno frequentemente lavorato per la rivista fondata da Harold Ross. Un giornalismo che – non a caso – pulsa del senso di avventura e di scoperta quasi infantile che anima i migliori film di Wes Anderson – Rushmore, Moonrise Kingdom, I Tenenbaum e Grand Budapest Hotel. Mondi/racconti che, pensandoci bene, potrebbero essere benissimo storie del New Yorker.

POPOLATO di numerosi abitué del cinema andersoniano (Bill Murray, Jason Schwartzman, Owen Wilson, Willem Dafoe), che qui allarga la cerchia ad altri grandi nomi internazionali (Mathieu Almaric, Lea Seydoux, Saoirse Ronan..) il film è «raccolto» nell’ultimo numero della rivista, fatto di una manciata di storie e del necrologio del suo leggendario direttore (Murray, in un misto di Harold Ross e William Shawn, il suo successore), tiranno agrodolce nel cui ufficio troneggia il cartello «non piangere», che adora i suoi giornalisti, non risparmia sulla carta e sull’inchiostro e, come un mago, sa recuperare la frase chiave che «fa» un pezzo dal cestino della carta straccia. Frances McDormand (alle prese con una cronaca del maggio francese incentrata sul giovane rivoluzionario Timothée Chalamet), Owen Wilson (uno specialista in storie da bassifondi, come Joseph Campbell, che sfreccia tra i pericoli in bicicletta come il fotografo Bill Cunningham), Jeffrey Wright (figura baldwiniana, e un asso del reportage sull’alta cucina, qui a caccia del mitico chef del capo della polizia) e Tilda Swinton (truccata e pettinata come Katharine Graham) sono i giornalisti. Le loro storie/peripezie scorrono davanti ai nostri occhi in bianco e nero, come l’inchiostro sulla carta. Ed è solo a loro che Anderson lascia il tempo e il respiro sufficienti per evocare la realtà di un personaggio. Il resto del suo ottimo cast spesso ci scorre davanti come le facce dai finestrini di un treno in corsa, impacchettato troppo stretto nell’incalzare macchinoso del film.

PIENO ZEPPO di idee e trovate visive, ma troppo artificioso per lasciarti addosso l’impronta delle complessità emotivo/intellettuali di altri lavori di Anderson, The French Dispatch regala però due cose importanti: un bell’omaggio all’universo poetico che ha formato il regista e, nascosto dietro all’epitaffio di questo piccolo, immaginario, giornale di provincia e della sua intrepida redazione, un messaggio molto forte contro il pensiero di massa.