Una lista di esponenti della società civile afghana a rischio sotto il nuovo regime talebano era stata compilata nelle ore immediatamente successive alla caduta di Kabul. A quella della Difesa italiana, in cui si trovavano inizialmente italiani e un un migliaio di afghani che avevano collaborato con la Nato o con la nostra ambasciata, si erano dunque aggiunte alcune centinaia di nominativi compilati dalle Ong che da un paio di decenni lavorano in Afghanistan.

Si trattava di persone che si sarebbero imbarcate non solo sugli aerei della Difesa ma anche sui voli di una compagnia commerciale privata che, sin dai primi giorni dalla caduta di Kabul, aveva dato la sua disponibilità a NoveOnlus. Questa rete di organismi non governativi ha iniziato a muoversi subito e al buio per contattare i propri partner in nome di un rapporto forte con la società civile. Quella parolina magica sempre sulla bocca di tutti ma che è fatta poi di persone in carne ed ossa di cui bisogna avere telefono e passaporto.

Nei giorni a seguire però una sorta di corsa al salvataggio degli afghani ha iniziato a riempire Esteri e Difesa di liste garantite dalle persone più disparate. Una corsa a poter esibire l’afghano/a salvati dal buon cuore nazionale. Tutto ciò non solo ha intasato la capacità organizzativa sotto stress sin dal 15 agosto, ma ha fatto in molti casi slittare diversi attivisti in fondo alla lista. Posto che ogni afghano ha il diritto di scegliere dove andare a vivere per evitare il regime talebano, questa corsa contro il tempo sembra aver travolto le priorità come se la “lista dei miei” valesse più di quella “dei tuoi”.

In momenti di emergenza il delicatissimo meccanismo della selezione rischia di impazzire in mancanza di una credibile cabina di regia, cosa che effettivamente era difficile da prevedere e creare sino appunto a quel 15 agosto. Tutto ciò ha creato imbarazzanti difese ciascuno della “sua lista”, in una guerra delle priorità che sembra non essere sfuggita al rituale italiano della raccomandazione del più forte che, in taluni casi e quantunque per un nobile anzi nobilissimo motivo, ha finito per travolgere la fragile macchina messa in piedi in quelle ore cruciali.

Tutto ciò è ora alle spalle anche se non va dimenticato quanto ha fatto una piccola Ong – Pangea – che ha attrezzato una sorta di filo diretto col console Claudi e la Difesa, seguendo passo a passo i difficili avvicinamenti all’aeroporto, suggerendo modi per essere identificati e dando sostegno a quanti, di altre Ong o anche singoli privati, hanno trovato nella chat di Pangea il centralino cui rivolgersi.

Tutto ciò, si diceva, è alle spalle ma non dovrà ripetersi . Non perché le Ong abbiano un diritto di prelazione sull’Afghanistan ma perché sono le uniche realtà che, salvo rare eccezioni individuali, hanno continuato a lavorare fino a ieri con afghane/i nel silenzio che negli ultimi anni ha circondato la nostra missione nel Paese.

Due giorni fa il ministro Di Maio le ha incontrate fornendo rassicurazioni non solo sul loro ruolo ma sul fatto che, ha detto il titolare degli esteri, i diritti umani sono una priorità dell’Italia. Una priorità che le associazioni conoscono bene perché di quei diritti si sono fatti sempre portabandiera: dai lontani giorni della Bosnia, all’Iraq, alla Siria, alla Libia. Nel comunicato che hanno fatto circolare, chiedono ora di essere protagoniste e interlocutrici privilegiate della ministra per la cooperazione Marina Sereni cui, mentre le cose precipitavano, era stata recapitata una lettera – che la viceministra ha recepito – suggerendo la necessità di un maggior coinvolgimento della società civile italiana per sostenere gli omologhi afghani: che sono associazioni di donne, organizzazioni che fanno sanità pubblica, organismi che fanno comunicazione, sport, istruzione in una rete nata dal basso nel cui rafforzamento tanta parte hanno avuto anche i non governativi italiani finché, da ormai diversi anni, i «motivi di sicurezza» non hanno imposto un taglio dei fondi e quindi la fine di molte attività (non tutte) con la dispersione di un intero capitale di relazioni fortunatamente sopravvissute.

La priorità sarà ora quella dei corridoi umanitari, l’attività di emergenza e l’accoglienza in Italia dei tanti rimasti fuori dall’aeroporto, alcuni dei quali ieri, con la bandierina italiana e un nome sulla lista, aspettavano davanti all’Abbey Gate dove si è scatenata la furia jihadista dello Stato islamico “Provincia del Khorasan”.
Posto che non possiamo (né spero vorremmo) svuotare l’Afghanistan dagli afghani (tra l’altro i più progressisti) e che l’obiettivo dovrebbe essere farli tornare in sicurezza nel loro Paese, questa volta il lavoro andrà fatto – oltre che ovviamente con l’Onu – anche con le Ong. Organizzazioni non scevre da limiti, ma pur sempre uno dei prodotti migliori della nostra solidarietà e che in questa guerra non hanno mai creduto.