La prima cosa che si deve fare per discutere seriamente di lavoro è quella di rimuovere il precetto neoclassico di “mercato del lavoro”. Un esercizio difficile visto i tempi che viviamo, ma indispensabile se vogliamo individuare le policy adeguate.

La pubblicistica recente ha piegato il dibattito sull’offerta, introducendo elementi di flessibilità salariale, contrattuale e organizzativa. Il senso dell’operazione era quello di avvicinare l’offerta alla domanda, con l’intento di rimuovere i vincoli che inibivano l’assunzione di nuovo lavoro. L’idea sottostante diceva che una maggiore concorrenza (contrattuale, fiscale, salariale, organizzativa) avrebbe permesso al mercato di creare le condizioni di piena occupazione.

In questa affermazione c’è qualcosa di giusto e di sbagliato. Se i fattori di produzione sono pienamente occupati, e solo a questa stringente condizione, allora la concorrenza permetterebbe di accorciare i tempi della cosiddetta disoccupazione frizionale, ovvero la necessità di portare un certo numero di lavoratori da un settore meno remunerativo verso un settore più remunerativo. Quindi il sistema economico, nel suo insieme, si troverebbe sulla linea della frontiera di produzione, in cui non c’è spazio per una produzione aggiuntiva.

Spostarsi da un settore a minore o maggiore intensità di capitale è il lascito della piena occupazione, e deve essere agevolato con la ricombinazione dei fattori di produzione. A queste condizioni l’ipotesi sottesa ha una giustificazione, ma come giustamente sosteneva il Capitolo I della teoria generale (Keynes): «la teoria classica (liberista) si occupa solo di un caso, non di quello generale. Più precisamente, l’economia liberista si occupa della distribuzione e dei diversi impieghi di un volume dato delle risorse occupate, ma non si occupa di ciò che determina l’effettiva occupazione delle risorse disponibili.

Lasciando temporaneamente l’approccio keynesiano, dovremmo indagare correttamente il termine disoccupazione frizionale e le sue implicazioni nell’economia reale e nella dinamica dello sviluppo capitalistico. Forse è stata poco discussa in campo economico, ma la stessa dizione di disoccupazione frizionale enunciata nei postulati liberisti, contraddice la stessa matrice liberista. Se c’è disoccupazione frizionale, ci deve essere un tempo zero e un tempo uno, cioè si entra nel terreno della dinamica dello sviluppo che coinvolge le fondamenta del discorso. I postulati liberisti riconoscono che tra l’offerta e la domanda di lavoro, la seconda prevale sulla prima. Un fatto mai discusso fino in fondo, ma rimettere al centro del dibattito del lavoro non “il mercato del lavoro”, ma la domanda di lavoro e la sua progressione è di fondamentale importanza. Perché è il perno dell’assenza o meno di lavoro.

A questo punto ci vengono in aiuto Paolo Leon e Luigi Pasinetti per declinare il che cosa determina la domanda di lavoro, che inevitabilmente precipiterà nell’offerta di lavoro. Cominciamo con il cosiddetto tasso di profitto e la dinamica dello sviluppo. La prima cosa che dobbiamo accertare è che il flusso delle innovazioni che compare in un determinato periodo non riguarda tutti i settori. In qualche misura la domanda effettiva, cioè l’anticipo dei profitti futuri attraverso nuovi investimenti, si concentra e si polarizza in pochi e precisi settori produttivi. Per questa ragione il solo aumento della domanda, in generale, è la negazione stessa della politica economica. Non solo. Al variare del reddito non si consuma di più, ma si consumano beni diversi che spingono le imprese a programmare nuovi investimenti per intercettare la nuova domanda. Questa è la domanda di lavoro, necessariamente a maggiore contenuto di conoscenza o valore aggiunto. Riprendendo Pasinetti: se il sistema economico è in grado di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, il profilo del progresso tecnico, del reddito, anche del fattore lavoro, tenderà a essere virtuosa nel lungo periodo. In altri termini, gli investimenti delle imprese di oggi sono l’anticipo di reddito futuro.

Naturalmente c’è il lavoro buono e ad alto valore nei settori emergenti; c’è il lavoro produttivo e con certi diritti, legato alle economie di scala per tutti i settori che beneficiano della tecnologia dei settori emergenti; c’è il lavoro precario e a basso salario per tutti i settori che devono lasciare spazio alla produzione emergente di maggiore valore aggiunto.

Chi si occupa di lavoro deve fare politica economica, deve governare il passaggio da una produzione a minore valore aggiunto verso una a maggiore valore aggiunto. Questo significa adottare delle politiche che anticipino la domanda. In altri termini fare economia pubblica. Riprendendo A. Smith: la mano invisibile (degli imprenditori) gioca un ruolo fondamentale, quello di indirizzare gli investimenti nei settori che offrono un sovrappiù (profitto) maggiore di altri settori.

Passare da un settore a un altro, mantenendo un certo tasso di occupazione, presuppone una grande policy pubblica capace di coordinare le politiche industriali, formative, ricerca e sviluppo, lavoro e stimoli. Il vero compito della politica economica moderna del lavoro è proprio quella di creare tanto lavoro quanto se ne perde. Un servizio difficile, ma necessario se vogliamo agire dal lato della domanda di lavoro. Proprio la crisi che attraversa il continente europeo, in particolare l’Italia, sollecita una riflessione sulla domanda di lavoro. Come direbbe Schumpeter: si esce da una depressione solo quando un grappolo di innovazioni riesce a formarsi e si traduce in nuove opportunità di crescita del sapere tecnologico.

Il dibattito su salario minimo, reddito di base, flexicurity o altre forme di ri-organizzazione del lavoro, sembra ancora lavorare sulla necessità di coniugare offerta e domanda di lavoro. Un errore d’approccio che rifiuta l’dea di sviluppo e cambiamento. Alla fine il tutto si sistema con una buona regolazione. Fortunatamente il capitalismo e la produzione di beni e servizi sono più seri.