A poco più di anno dalla pubblicazione, negli Stati Uniti, del suo ultimo romazo – tradotto in Italia, per Mondadori, da Carlo Prosperi: La coscienza di Andrew –, con Edgar Lawrence Doctorow scompare una delle figure più eminenti della civiltà letteraria contemporanea. Appartenente a una generazione che ha dato alla cultura americana alcuni dei suoi maggiori interpreti (Philip Roth, John Updike, Tom Wolfe e Thomas R. Pynchon tra gli altri), Docotorow era nato nel 1931 a New York, nel Bronx (come anche Don De Lillo, di cinque anni più giovane), ma la sua affermazione non arrivò che quarant’anni dopo, con Il libro di Daniel. Prima di allora, due titoli di genere (il western di Tempo di uccidere e la fantascienza di Big as Life), un’eclettica carriera di editor (curando libri di Ayn Rand, James Baldwin o Norman Mailer) e un magistero universitario durato decenni (università dello Utah, California, Yale e Princeton). Con Daniel, apparso nel 1971 per i tipi della Random House, Doctorow gettava le basi del suo lavoro a venire: in pieno clima di contestazione studentesca per la politica del governo in Vietnam e partendo da un fatto di cronaca (il caso dei coniugi Rosenberg, processati e condannati a morte, durante il maccartismo, come spie dell’Unione Sovietica), macro e micro storia si fondevano in un amalgama che ricostruiva perfettamente il clima grottesco e isterico di quegli anni Cinquanta.

Un talento di successo

Nel 1983 Sidney Lumet portò il romanzo sul grande schermo, ma fu l’adattamento cinematografico che, nel 1981, Miloš Forman fece di Ragtime (1975) a consacrare definitivamente Doctorow anche presso il grande pubblico: la sua, stavolta, era una corsa sfrenata nell’America di Roosevelt e Taft, dei ragtimers e del jazz, con un occhio puntato sempre sulla realtà e l’altro sul suo rovescio immaginifico e complementare. Condensata nelle vicende di una famiglia media – cui si contrappongono le diverse celebrities che, di volta in volta, fanno la loro apparizione sulla pagina (Freud e Houdini, l’arciduca Francesco Ferdinando e il capitalista Ford) – un’intera nazione si riconosceva nella pirotecnia di un libro non convenzionale
Nel decennio succesivo, lo scrittore, ormai romanziere celebrato, mise ancora a segno Il lago delle strolaghe (1980), La fiera mondiale (1985) e Billy Bathgate (1989). Dopo l’esplosione del postmodernismo (che secondo Doctorow aveva disintegrato i personaggi multidimensionali di Jack London e Theodore Dreiser), questi ultimi due titoli testimoniavano come l’estro stilistico non fosse incompatibile con il successo di vendite: nel primo, ambientato all’epoca dell’Esposizione universale di New York del 1939, si ricostruiva un’intera stagione attraverso lo sguardo innocente del piccolo Edgar, vero e proprio alter-ego dell’autore; nel secondo, salutato dalla critica come «la prova che il “grande romanzo americano”, se non già questo, è comunque possibile» ovvero come l’unica, possibile «risposta a Mark Twain», era la volta del proibizionismo (di nuovo una temperie di forti contrasti e tensioni palpabili) a far da sfondo all’ascesa e alla caduta del gangster Dutch Schultz. Raggiunti i massimi vertici, negli anni Novanta sembrò che la capacità di E.L. Doctorow di scandagliare il passato prossimo del suo paese si fosse estenuata: L’acquedotto di New York, del 1994, fu accolto tiepidamente, ma lo scrittore del Bronx, stilista enciclopedico e popolare, rispose da par suo dando vita ad un affresco magistrale per complessità ideologica e plasticità verbale: uscito nel 2000, La città di Dio è, dopo molti tuffi indietro nel tempo, un romanzo d’ambientazione contemporanea e di profondità millenaria che, guidando il lettore insieme al protagonista alla ricerca di una croce scomparsa da una chiesa di Manhattan, lo accompagna al fondo della propria inquietudine spirituale.
All’alba del nuovo millennio la stella di Doctorow era di nuovo in orbita e nel 2005, sempre per Random House, usciva La marcia. A far da spunto, questa volta, l’odissea degli oltre sessantamila, tra soldati regolari e schiavi liberati, che nell’inverno del 1864 mossero sulla Georgia prima e attraverso le due Caroline poi per vincere le ultime resistenze dell’esercito confederato: «una falce di distruzione larga una cinquantina di chilometri sopra una terra un tempo generosa», guidata dal generale William Tecumseh Sherman, sorta di genio militare partorito da un misto di isterica volubilità e acuta depressione, «capace di pavoneggiarsi o di svicolare con la coda tra le gambe come un cane bastonato a seconda degli umori». Libera rivisitazione del mito melvilliano di Moby Dick – che Doctorow colorava della irrisolta contrapposizione tra scienza e fede – The March (così in originale) è davvero The Great American Novel; nei suoi capitoli, come lo stesso autore ebbe a confessare in un’intevista di non molto tempo fa su queste pagine («il manifesto» del 12/06/2007), non v’è solo «la descrizione di un esercito in marcia, ma è un’intera civiltà che si mette in cammino. Come gli schiavi si accodano ai soldati perché se fossero rimasti indietro sarebbero stati puniti, anche l’establishment dei bianchi, avendo perso tutto per essersi votato solo al suo bisogno di sopravvivenza, alla conservazione dei propri privilegi, non può fare altro che partecipare a questo cammino comune. Di colpo è l’intera civiltà che si muove, un mondo fluttuante senza più radici».

Una inquieta contemporaneità

Ecco, dunque, cosa ha rappresentato davvero il romanzesco per E.L. Doctorow: la possibilità di disegnare una traiettoria che, a partire dal bagaglio dei reperti storici e autobiografici di cui ciascuno di noi dispone, come individuo e come membro di una comunità, dal cognito tenda a penetrare l’incognito, fatalmente scartando, nel tragitto, da qualsiasi programma ne abbia informato il percorso. E si spiega anche così, con un movimento sinusoidale che da un’opera risale alla precedente e poi muove verso la successiva, l’ultimo capolavoro che l’autore di Homer & Langley (2009) ha regalato ai suoi lettori, quella Coscienza di Andrew in cui il setting storico lascia il posto a un indistinto presente e alla voce di un uomo che viene raccontato – e si racconta – muovendo sul filo ingannevole della memoria; mettendone in discussione il grado stesso di verità che detiene e la sua capacità di ricostruire un’esistenza per darle un senso, un significato che non si esaurisca nella semplice constatazione di un’assurda impostura. Così come nella Fiera mondiale il nodo narrativo era rappresentato dai riti di passaggio del «bambino» Edgar, ritratto come «l’artista da giovanissimo», in Andrew’s Brain (il titolo in inglese rende pienamente la complessità psicologica della vicenda imbastita da Doctorow) il cuore della storia è portato tutto in superficie, con un acume ed una leggerezza di tocco che non hanno più bisogno di fuochi d’artificio o mirabilia: la vita di Andrew è già passata, ma non per questo può dirsi completata perché, postilla Doctorow come in un testamento spirituale – e non senza un pizzico di ironia -, «dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli. Prendono le decisioni prima di noi. Ci conducono all’acqua ferma. Rinunziano al loro arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra: se tagliate un cervello a metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci, tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere dando per scontata la vita costruita socialmente. Aborrite la scienza. Credete più o meno in Dio. Dimenticatevi gli errori commessi. Offrite le vostre giustificazioni allo specchio del bagno».