Il rapporto, Employment Outlook, sullo stato del mercato del lavoro, pubblicato ieri dall’Ocse non desta nessuna sorpresa: a fine 2014, l’Italia rimane segnata da forte disoccupazione, sottoccupazione e bassi salari. Un’immagine che l’Istat, istituzione che fornisce i dati per Eurostat e Ocse, aveva già fotografato e reso nota. È utile riprendere i dati pubblicati nel rapporto e ripeterli a scanso di equivoci e di facili fraintendimenti propagandistici.

La sezione dedicata all’Italia inizia con una doccia fredda «La ripresa italiana rimarrà timida per un certo periodo. Secondo le più recenti proiezioni Ocse, il Pil crescerà dello 0,6% nel 2015 e dell’1,5% nel 2016, valori al di sotto di quelli attesi sia dell’area Euro che dell’intera Ocse». La disoccupazione nel 2015 è diminuita lievemente dopo il picco di fine 2014, attestandosi a maggio 2015 al 12,4%, rimane a un livello doppio rispetto al 2007. Ma soprattutto, spiega l’Ocse, anche a fine 2016 le previsioni indicano che il tasso di disoccupazione si attesterà all’11,6%: un miglioramento sì, ma di poco conto.

Il tasso di disoccupazione giovanile è ancora intorno al 42% mentre è allarmante quello relativo ai Neet, oltre un giovane su quattro tra i 15 e i 24 anni non studia e non lavora (speriamo che non guardi nemmeno la tv). Dati negativi che nel 2014 non migliorano, nonostante la propaganda di governo e il decreto Poletti, secondo cui un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare l’occupazione e in particolar modo quella giovanile. Mentre l’occupazione non aumenta, il mercato del lavoro si fa sempre più precario, soprattutto per i giovani e le donne: nel 2014, il 56% dei lavoratori tra 15 e 24 anni ha un contratto a tempo determinato, percentuale in aumento di 14 punti percentuali dal 2007. Non soltanto il lavoro si fa più instabile ma dura anche poco: secondo l’Ocse, circa il 40% dei contratti non supera l’anno nel 2014, dinamica che non migliora nei primi tre mesi del 2015, dove circa il 45% dei contratti ha durata inferiore al mese.

Non soltanto la precarietà, ma anche la disoccupazione di lunga durata – che in Italia colpisce oltre il 61% dei disoccupati – contribuisce, a determinare redditi da lavoro persistentemente bassi. Riguardo i redditi da lavoro, su 34 Paesi Ocse, l’Italia si colloca al ventesimo posto nella classifica. Seppure nel 2014, i salari reali siano minimamente aumentati, nel periodo 2007-2014 la loro crescita è stata negativa.

Ma non è finita, esiste una sezione in cui l’Italia non è affatto menzionata nell’Employmnet Outlook, quella relativa al salario minimo, che appunto non è mai stato introdotto, grazie anche – si fa per dire – alle resistenze che provengono dal sindacato. Ma, nei paesi in cui esiste, il salario minimo è riuscito ad attenuare le disuguaglianze salariali, senza provocare nessun effetto perverso sull’occupazione, nonostante non sia sempre in grado di prevenire il fenomeno dei working poor. Tuttavia, le disuguaglianze rimangono alte e solo in parte sono spiegate dai differenti livelli di istruzione/competenze tra i lavoratori: molto continua a dipendere dalle condizioni della famiglia di provenienza e dall’andamento dell’economia, sono cioè strutturali.
Ma tutto questo non sembra interessare al governo italiano.

Ma mentre i dati del 2014 e le previsioni fino al 2016 mostrano soltanto un lieve miglioramento del mercato del lavoro italiano, che si fermerà anche nel 2016 a livelli ben peggiori di quelli del 2007, l’Ocse si lancia in un elogio del Jobs Act, in quanto aumenterebbe gli incentivi per creare posti di lavoro a tempo indeterminato. Sembra che le istituzioni internazionali continuino a soffrire della miopia tipica dell’ideologia neoliberista, secondo cui per creare occupazione basterebbe ridurre il costo del lavoro per le imprese e non invece aumentare la domanda delle famiglie accompagnata soprattutto dalla politica industriale e dal ruolo attivo dello stato. Dovremmo allora ricordare anche all’Ocse che, stando agli ultimi dati Istat, Inps e Ministero del Lavoro, il JobsAct non crea lavoro stabile, se non in quantità infinitesimali, mentre le imprese incassano incentivi senza vincoli di investimento, accontentandosi di un ruolo di subalternità tecnologico e produttivo rispetto ai Paesi del Nord Europa che oggi portano avanti una battaglia non soltanto contro la ripresa e lo sviluppo della Grecia ma di tutti i Paesi dell’Europa mediterranea.