Tutto rinviato, ma la notizia arriva tardi. Quattro minuti alle due del pomeriggio, i senatori della giunta per le elezioni sono già nel cortile di Sant’Ivo alla Sapienza, i più svelti al loro posto nell’auletta. A cento metri da palazzo Madama, calpesta l’acciottolato barocco il senatore Giacomo Caliendo, magistrato di Cassazione e uomo di fiducia di Berlusconi. Poche ore prima è stato designato relatore del disegno di legge salva-Dell’Utri. Nella giunta deve assumere le funzioni di presidente pro tempore. E invece niente. Squillano i cellulari, i ventitrè senatori possono tornare nelle mura del Palazzo. L’elezione del presidente – voto segreto in seduta segreta – slitta alla prossima settimana. Lo stop arriva dalla conferenza dei capigruppo. Lo chiedono Pdl e Pd perché si accorgono che la conta avrebbe potuto dare un esito imprevisto, premiando un candidato diverso dal leghista Volpi. E non è il caso, visto quello che aspetta la giunta. Riassume Caliendo, mentre va via: «Se viene posto il tema dell’ineleggibilità di Silvio Berlusconi è evidente che il governo finisce all’istante».

È con questa serenità e libertà di giudizio – ribadita negli stessi toni ultimativi da altri esponenti del Pdl e poi da Berlusconi direttamente – che possono lavorare i senatori della giunta. E infatti non lavorano: a tre mesi dal voto di febbraio ancora non si perfeziona l’organo che deve valutare la regolarità delle elezioni. La casella del presidente è troppo importante perché il Pdl possa rischiare che vada a qualcuno intenzionato a calendarizzare la questione della non eleggibilità di Berlusconi, scolpita in una legge del 1957 che riguarda i soggetti titolari di una concessione pubblica. Una legge che i parlamenti hanno deciso fin qui di disapplicare.

Volpi dunque è il candidato prescelto dagli strateghi delle larghe intese, sponda Pdl o Pd. Non per nulla la Lega al senato si è astenuta per potersi atteggiare a opposizione: per prassi la presidenza della giunta va alla minoranza. Tenere fuori dall’agenda la questione dell’ineleggibilità di Berlusconi – facendosi forza del fatto che la questione è già stata risolta in passato – toglierebbe un bell’ostacolo dal percorso del governo. Ma è nel Pd che si consuma l’ennesima divisione. Il senatore Felice Casson in splendida solitudine spiega che la Lega (sul cui tasso di berlusconismo non c’è da discutere) non è nemmeno «tecnicamente» opposizione, per cui la presidenza della giunta deve andare a Sel o ai 5 Stelle. In Più Casson ricorda che i precedenti contano nulla. Motivazioni opposte arrivano da democratici di diversa collocazione e levatura. Luciano Violante e Matteo Orfini si spendono per il lasciapassare a Berlusconi, con l’identica tesi che se fin qui il Pd (ma erano i Ds e prima ancora il Pds) ha votato per la non applicazione della legge del ’57, non ci sono ragioni per cambiare linea. «Questo fare e disfare la giunta è imbarazzante», dice il segretario democratico Epifani. Ma l’imbarazzo è tutto in casa sua.

Sono gli otto componenti del Pd quelli decisivi. Pesati tutti i gruppi, se la gran parte dei democratici scegliesse di seguire Casson – e questo sarebbe l’orientamento di almeno altre tre senatrici – rischierebbe di insediarsi alla presidenza l’avvocato catanese Michele Giarrusso. Esponente proprio del gruppo 5 stelle, quello che quando ci sarà finalmente la prima riunione della giunta calerà subito la richiesta di procedere contro Berlusconi. Un atto, bisogna aggiungere, che se pure venisse approvato in giunta, dovrebbe essere ratificato dall’aula del senato. Ma è precisamente questa discussione, l’unica discussione pubblica possibile, che Pdl e Pd vogliono evitare.
Se ne può uscire solo con un accordo generale sugli ultimi posti che restano da assegnare. Per questo il rinvio è di una settimana. Si tratta però di convincere Sel a rinunciare al Copasir, alla cui presidenza è candidato Claudio Fava, per fare spazio a un leghista. Accontentare i grillini con la poltrona della vigilanza Rai. E far convergere i voti della giunta su Dario Stefano, senatore di Sinistra ecologia e libertà di provenienza moderata. Tra la padella e la brace i berlusconiani finirebbero per preferire la padella. Ai vendoliani la missione di non scottarsi con l’incarico.