Siamo al trionfo della supremazia dell’impresa sul lavoratore. Il testo è scritto solo con la mano destra ma lascia margine ai ricorsi giudiziari». Claudio Treves, segretario generale del Nidil Cgil – la federazione dei precari – e uno dei massimi esperti di diritto del lavoro, giudica così i due primi decreti del Jobsact.

Treves, da Forza Italia però dicono che ha vinto la Cgil…
Direi proprio di no, purtroppo. Nei giorni scorsi era andato in scena il solito copione: far uscire voci su provvedimenti improponibili, come l’opting out e il licenziamento per scarso rendimento, per ottenere comunque quello su cui puntavano: dare carta bianca ai datori di lavoro sui contratti. Il guaio quindi è quello che è rimasto nel testo.

Ecco, entriamo nel dettaglio del testo. Qual è il provvedimento più grave? L’allargamento ai licenziamenti collettivi?
È l’impianto in quanto tale ad essere gravissimo. Perché non siamo davanti ad un contratto a tutele crescenti, ma ad un contratto a tempo indeterminato di libera recidibilità, che può essere risolto in ogni momento con l’unico rischio per il datore di lavoro di dover pagare qualche mensilità di indennizzo. Il che determina una ricattabilità assoluta per tutti i nuovi assunti: dobbiamo pensare che ogni anno ci sono 10 milioni di nuovi contratti e d’ora in poi tutti, anche i tempi indeterminati, lavoreranno con la paura di poter essere licenziati come e quando il loro datore di lavoro vorrà.

Pietro Ichino si prende il merito di aver suggerito buona parte del testo. Il decreto è scritto veramente con la sola mano destra?
Non c’è alcun dubbio. Tutto l’impianto reca la firma di Pietro Ichino e della elaborazione che lui ha portato avanti fin dalla metà degli anni novanta, quando scrisse “Il lavoro e il mercato”. Una elaborazione che parte da un assunto fattualmente sbagliato: la job property, l’idea che in Italia il lavoratore consideri il suo posto inamovibile e che per cambiare questa mentalità considerata nociva serva il firing cost e cioè che l’impresa possa sempre quantificare monetariamente la sua forza lavoro. Con il decreto tutto questo si avvera.

La partita quindi è chiusa o il sindacato può ancora riaprirla?
Nel testo c’è un punto assai problematico. L’articolo 2106 del Codice civile prescrive come le sanzioni debbano essere proporzionate «all’infrazione». E visto che il decreto non ha abrogato questo articolo di legge io vedo tutto lo spazio perché i lavoratori che verranno licenziati possano intraprendere la strada dei ricorsi giudiziari. E credo proprio che la Cgil sarà insieme a loro nel farlo.

Anche sui licenziamenti collettivi vede spazio per ricorsi?
Lì ci sono due vigliaccate difficili da contrastare. Il fatto che «i vizi di procedure e di forma» nei contratti non portino più in nessun modo al reintegro e di conseguenza che se nei licenziamenti collettivi l’impresa non rispetta i criteri di scelta degli esuberi comunque non dovrà riassumere questi lavoratori. Le imprese potrebbero sbagliarsi volutamente, ad esempio discriminando gli iscritti alla Cgil, come a Pomigliano la Fiat con i lavoratori Fiom.

Passiamo al secondo decreto, quello sugli ammortizzatori. Renzi sostiene di aver allargato l’Aspi a 24 mesi a tutti i precari. È davvero così?
Indubbiamente il decreto ha il merito di tutelare per la prima volta in modo concreto i collaboratori. Finora sia Sacconi che Fornero avevano previsto solo delle una tantum, inarrivabili per loro per i requisiti che prevedeva. Ma il punto negativo del testo è che la durata del nuovo ammortizzatore – il Dis-coll – è sempre la metà dei periodi contributivi. In sostanza i lavoratori precari finanziano la gestione separata dell’Inps, ma in cambio ricevono la metà dei periodi di contribuzione, venendo nettamente discriminati rispetto ai lavoratori che versano alla gestione principale. In più, al di là dei proclami di Renzi, niente si sa su se, come e quando verranno superate le tante forme contrattuali precarie.

L’ammortizzatore si limita però ai cococo e cocopro. Per le partite Iva, già tartassate dalla legge di stabilità, non c’è niente neanche questa volta.
Sì, è così. Ma il problema deriva dal testo della delega che faceva esplicito riferimento ai soli collaboratori. Sarebbe bastato, come abbiamo provato a suggerire senza essere ascoltati, modificare il testo della delega sostituendo alla parola collaboratori la dizione lavoratori che versano alla gestione separata, escludendo i soli dirigenti. Ma, forse anche per ragioni di coperture, come al solito ci hanno ignorato.