Un segno dei tempi più evidente non lo si potrebbe immaginare. La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi diffonde i nomi di 17 candidati «impresentabili», cioè sospetti di collusioni con la criminalità, e a insorgere scompostamente non è Forza Italia come da antichi copioni, ma lo stesso partito della Rosy, il Pd di Matteo Renzi. Il senatore forzista Nitto Palma appare addirittura compassato: «Non condivido». Renato Brunetta, poi, difende la già odiata Bindi: «La sua iniziativa è legittima. Il Pd offre uno spettacolo squallido».

Ma se guardi dall’altra parte, verso il succitato Pd, trovi un vulcano in eruzione. Partono i vicesegretari Guerini e Serracchiani che vanno giù più duri di come non si può: «Bindi ha usato l’Antimafia per una sua personale lotta politica». Il candidato campano De Luca, unico Pd nella lista, annuncia querela e replica: «La vera impresentabile è lei, ma mi regala 100mila voti. Grazie». «Se la vedranno in tribunale», commenta Matteo Renzi, che dopo aver gettato avanti i luogotenenti, a sera aggiunge il suo carico: «Mi fa molto male che si utilizzi la vicenda dell’antimafia per una discussione tutta interna, per regolare dei conti interni al Pd».

Le reazioni dei diretti interessati erano prevedibili. Quelle forsennate del Pd un po’ meno. Ad aprire il fuoco è un ufficiale renziano, Ernesto Carbone, deputato: «Bindi sta violando la Costituzione». La presidente nemmeno gli risponde, «Non mi abbasso». E’ solo un tiro d’assaggio. Poi irrompe l’artiglieria pesante. Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, guardia di ferro renziana, twitta duro: «Così si svilisce l’antimafia». Paragonato al presidente del partito Matteo Orfini, già giovane turco, è un buffetto. Per lui la Bindi ci riporta addirittura «indietro di secoli, quando i processi si facevano nelle piazze aizzando la folla». Sullo sfondo un coro da linciaggio in diretta. Per qualcuno (Marcucci, senatore) «è uno show imbarazzante e inutile». Per qualcun altro (Umberto Del Basso De Caro, sottosegretario) trattasi di «intervento a gamba tesa, grave interferenza nella vita democratica». Per Stefano Ceccanti, testa d’uovo del costituzionalismo in stile renziano, «Siamo al di fuori della legge». Sono solo due esempi tra mille. Il florilegio è senza precedenti. Fioccano le richieste di intervento anche sul secondo cittadino dello Stato, tanto che il presidente del Senato Pietro Grasso deve alla fine precisare: «Non posso intervenire sull’Antimafia».

A difendere Rosy Bindi si levano davvero poche voci, escludendo quella non disinteressata di Brunetta. C’è Sel con il capo dei deputati Arturo Scotto, quella dei senatori Loredana De Petris, il membro dell’Antimafia De Cristofaro ma anche Nichi Vendola che parla di linciaggio contro la ex presidente dell’assemblea Pd. Tra i dem ci sono le voci della minoranza, quelle dell’ex segretario Pierluigi Bersani e Stefano Fassina. C’è il bersaniano D’Attorre. Ma poca roba. Donna Rosy, peraltro, si difende benissimo da sola. «Lo screening del personale politico rientra tra i nostri compiti. Nessuna intromissione nella campagna elettorale, nessuna lotta interna al Pd. Qui non si parla di incandidabilità ma solo di dire ai cittadini qual è la qualità politica di chi andranno a votare». Poi a sera sbotta: «Ho taciuto di fronte al tentativo di delegittimare me e la commissione per un candidato la cui condizione era conosciuta da tutti. Saranno gli italiani a dire chi usa le istituzioni per fini politici». Ogni riferimento a un Pd che fa muro intorno al candidato presidente della Campania, Vincenzo De Luca, è assolutamente intenzionale.

Le accuse mosse alla presidente dell’Antimafia, in realtà, sono anche di metodo. Un commissario, il Pd Magorno, lamenta il non essere stato messo al corrente dei nomi sino all’ultimo momento, quando li ha appresi in tv dalla presidente stessa. Concorda il segretario della commissione, Marco Di Lello, socialista: «A nessuno è stato consentito di fare valutazioni sulla lista. Bindi non ha voluto nessuna condivisione». La replica arriva a stretto giro: «Non ho preso nessuna iniziativa da sola. L’ufficio di presidenza allargato ai capigruppo ha condiviso tutte le procedure». Al comunicato, la Bindi acclude una nota sui compiti assegnati alla commissione dalla legge istitutiva, incluso quello di vigilare sul rispetto del codice di autoregolamentazione.

Quel che andrebbe messo in discussione, casomai, non è l’applicazione del codice di autoregolamentazione da parte della Bindi, ma, eventualmente, la sua logica. La richiesta di ridiscuterla sarebbe più accettabile se il partito che strepita, quello di Matteo Renzi e della stessa Rosy Bindi, non fosse troppo direttamente parte in causa.