Maurizio Lupi getta la spugna. Non di fronte al Parlamento: quella è una formalità che espleterà stamattina a Montecitorio. Di fronte a quella che un tempo veniva chiamata, non tanto ironicamente, «la terza camera della Repubblica», il salotto di Bruno Vespa, Porta a Porta. Lo fa perché «quando ti vedi tirato in ballo, non so per cosa, le decisione migliore è questa». Lo fa perché queste dimissioni «rafforzeranno l’azione di governo». Lo fa ammettendo un solo errore, peccatuccio veniale: «Non me la sono sentita di dire a mio figlio di restituire il Rolex regalatogli per la laurea. Forse ho sbagliato».

Questa la linea ufficiale. La realtà è che il ministro delle infrastrutture si è rassegnato quando ha capito che Matteo Renzi sarebbe andato fino in fondo. «Non mi ha mai chiesto di dimettermi», ha ripetuto ieri Lupi. Forse è vero. Di certo però Renzi gli aveva detto che tutto il Pd, non solo la minoranza, gli avrebbe votato contro. Che a definire la situazione «insostenibile, al netto di qualsiasi scelta garantista» non era solo Gianni Cuperlo, che poco prima aveva tirato la bordata in questione, ma lo stesso stato maggiore renziano. A decidere, insomma, sarebbero stati i deputati. Ma in questi casi si sa come vanno le cose. L’ipotesi che a ordinare all’intero Pd di reclamare la testa di Lupi sia stato invece proprio il segretario e presidente del consiglio è tutt’altro che fantasiosa.

Restava un solo appiglio, e anche quello nel corso della notte si era rivelato scivolosissimo: la resistenza dell’Ncd, che appena 24 ore prima aveva minacciato il passaggio dalla maggioranza all’appoggio esterno. Con Angelino Alfano e con il suo gruppo dirigente, Matteo Renzi ha adoperato lo schema a cui ricorre sempre in questi casi: la sfida diretta. Il premier era convinto, a ragione, che di fronte alla minaccia di una crisi e di elezioni anticipate che nessuno, neppure lui vuole, ma che tutti hanno più motivo di lui di temere, i centristi si sarebbero arresi. Ancora una volta, i fatti gli hanno dato ragione e la carta si è dimostrata vincente.

Per Renzi è un successo pieno, non solo perché è riuscito a disinnescare la bomba prima che deflagrasse col voto sulla mozione di sfiducia che era previsto per martedì. Il risultato ottenuto con lo sgombro di Maurizio Lupi dal ministero delle Infrastrutture è cospicuo di per sé. Al momento di formare il governo, l’ex sindaco di Firenze aveva fatto il possibile per sottrarre all’uomo di Comunione e liberazione una delle poltrone più strategiche che ci siano nel governo. In privato non aveva nascosto la sua diffidenza, e proprio per non legare troppo il suo nome a quello di Lupi aveva evitato di inviare qualcuno dei suoi uomini di fiducia al ministero, una volta rivelatosi impossibile sottrarlo all’ex forzista.

Chi prenderà ora il suo posto?Il dimissionario argomenta che, «nell’interesse del governo», sarebbe meglio che non andasse a un esponente del Pd, per evitare che l’esecutivo diventi un monocolore. Forse Renzi lo ascolterà, ma solo per affidare l’incarico a un suo uomo di fiducia, pur se tecnico. Raffaele Cantone, per esempio, o un altro magistrato di peso e allo stesso tempo di provata affidabilità. Qualcosa in cambio all’Ncd dovrà essere dato, ma non sarà un dicastero importante. Renzi punta agli Affari regionali. Il partito di Lupi spera in qualcosa di più succulento: nello specifico un ministero che ancora non esiste ma che è da un pezzo in gestazione, quello «del Sud».

Sempre che dell’Ncd si possa ancora parlare, e i primi a non esserne affatto certi sono proprio i dirigenti di quel partito, o almeno alcuni di loro. «Il Nuovo centrodestra non esiste più», ammette uno dei più alti in grado. Segue previsione tra le più fosche: presto un numero congruo di parlamentari abbandonerà la scialuppa affondante per tornare al vascello di capitan Silvio, che ha dimostrato di resistere alle tempeste molto meglio del previsto. In questo caso, proprio come è avvenuto con l’elezione del capo dello Stato, Renzi pagherebbe una vittoria comunque indiscutibile con un aumento dei rischi per la stabilità del suo governo. Lupi, che tra tutti i dirigenti dell’Ncd è l’unico a vantare un peso specifico notevole in Lombardia e che ha piazzato i suoi uomini in più o meno tutte le postazioni centrali di Cl, non farà parte dell’eventuale drappello di ri-transfughi. Non subito almeno. Ma se il dissolvimento dell’Nuovo centrodestra procederà spedito, difficilmente resterà in un partito morente.

La scelta di Lupi, per quanto pochissimo spontanea, è stata accolta da un coro di applausi, tanto fragorosi da rivelare quanto fondo sia il sospirone di sollievo che nascondono. Per il Pd è la vicesegretaria Debora Serracchiani a lodare l’alta «sensibilità istituzionale» del quasi ex ministro, mentre Lorenzo Guerini apprezza il «gesto politico, un atteggiamento ragionevole e serio».
Alfano poi si scompone commosso: «La decisione di un uomo delle istituzioni, onesto e per bene». Oggi la maggioranza applaudirà Maurizio Lupi in aula, per rendergli l’onore delle armi. Ma se l’uomo si accontenterà o se coverà rancori letali, ci vorrà un po’ per capirlo.