«Il mio lavoro sono le parole. Le parole sono come etichette, / o monete, o meglio, come uno sciame di api», scrive Anne Sexton in «Disse il poeta all’analista», una delle sue prime poesie da A Bedlam con parziale ritorno, la raccolta con la quale esordisce nel 1960, cedendo a un titolo premonitore del nodo contorto che unisce vita e scrittura: Bedlam è il noto manicomio di Londra. Una voce che arriva dunque dall’«asettico tunnel / dove i morti che camminano ancora parlano / di spingere le ossa contro l’urto / della cura. E io sono regina di questo albergo estivo / o ape ridente su uno stelo // di morte» («Tu, Dottor Martin»). No, non è una voce confortante quella di Anne Sexton, come non lo era stata la voce dell’amica Sylvia Plath, anche lei – Sexton lo ricorda in «La morte di Sylvia» –, cultrice di «api». Ma è già terapeutico (anche se non bastò) che ella scelga le parole come lavoro, senza temere troppo l’«urto», pur coltivando l’ansia di vedersi presto su uno stelo di morte.
Nasce nel 1928 da famiglia agiata, ma traballante, nei pressi di Boston, e si forma alla scuola di Robert Lowell, in un corso da lui tenuto alla Boston University nel 1957, in cui il più nobile discendente di una genia di Puritani (WASP) ebbe il privilegio di battezzare diversi aspiranti poeti, oggi canonici, nella vena comunemente chiamata «confessionale», con l’io esposto in tutti i suoi anfratti. Una reazione alla teoria dell’«impersonalità» di T. S. Eliot – così nella declinazione della storia letteraria –, in realtà segno di un malessere generazionale rispetto all’aria ambigua di metà secolo, e senza distinzioni di gender, sebbene i disagi delle donne furono, lo sappiamo, più deleteri nel determinare lo scompenso con la realtà e il peso culturale del passato.
Esaltazioni eccentriche
Traumi adolescenziali in famiglia (si mormora di abusi subìti), salute malferma per disturbo bipolare, ripetute cadute nella depressione, le ossessioni e le manie (esaltazioni eccentriche), e poi soggiorni ospedalieri, analisi psicanalitiche, isteriche performance su sfondi di musica rockeggiante, infine il suicidio definivo (ne aveva tentati altri) nel 1974, l’anno del divorzio dal marito Alfred Sexton. Con indiscutibili problemi personali e istintive doti per la pratica poetica, Sexton è anche frutto degli anni in cui vive: i conservatori anni Cinquanta e, con un sobbalzo, i movimentati Sessanta. Questi ultimi – in fin dei conti – traumatici per una certa generazione, vessati come furono da tragedie pubbliche, un’altra guerra (il Vietnam), lo sfascio della famiglia e le sovversioni dell’avventura Hippie: la controcultura. Soprattutto, ella aveva assimilato malamente il carico dell’imposizione di un modello femminile domestico che negava l’accesso a emancipazioni, inclusa la parola (lo dice in termini di scrittura lirica: «Mi devo sempre scordare di come una parola / ne trova o ne plasma un’altra, finché / ho qualcosa che avrei potuto dire … / ma non ho detto») e che, come pare il suo caso, in quel territorio così vicino a Salem, la cittadina dove, quasi tre secoli prima, si era data la «Caccia alle streghe», costringeva a risvegliare mascherature di madri ataviche: «Sono uscita, strega invasata, / a infestare le tenebre, più audace di notte; / sognando malefici, ho fatto i miei incantesimi» («Come lei, Her Kind»: la strega, contro-mito locale, non la menade). Sexton colloquiava con entrambe le sfere: angeli diafani e angeli caduti, drammi acuti e fiabe mistificanti (in Trasformazioni), soprattutto: inferno e paradiso.
Sette raccolte in Italia
A oggi, ben sette raccolte di sue poesie sono state pubblicate in Italia, dal 1989 al 2010. Rosaria Lo Russo, in particolare, ne ha seguito benemeritamente tematiche ritagliate (sull’amore, su Dio, per le edizioni Le Lettere e Crocetti), discorsi isotopici che si perdono nell’ampiezza dei Complete Poems (1999). Nonostante il lavoro già fatto, non si può non dare il benvenuto alla nuova scelta curata da Cristina Gamberi in La zavorra dell’eterno (Crocetti, pp. 499, € 18,00), forse la raccolta più ricca, più sfaccettata e cronologicamente più rappresentativa, quella che si propone anzitutto come un invito a distanziare biografia e scrittura, a riscattare la vittima dagli sguardi profani di stereotipe letture, cosa che si continua a chiedere anche per Sylvia Plath. Ma è difficile rompere certe convenzioni o liberarsi dei contesti. La «zavorra dell’eterno» – un verso della lirica «The Earth» – si riferisce al peso sopportato da Dio in Paradiso, invidioso dei piccoli piaceri godibili in terra (fumarsi un sigaro o avere un corpo). Un irriverente sberleffo – naturalmente – un po’ alla Emily Dickinson quando, nella sua doppia voce, la reclusa di Hartford vuole essere impudente nella sfida all’eterno promesso dal suo Dio più severo. Ma può voler anche dire che l’io ironico che parla in «La terra» non intende ereditare, post mortem, un’effimera zavorra.
Diversamente dalla poesia di Sylvia Plath, quella di Sexton è segnata, più che dalla malattia o dalla morte, dalla metafisica di un lutto permanente, un lutto autoreferenziale, vissuto come in una vita postuma, libera da tutte le zavorre, commentato da un’anima, direbbe James Hillman, che predilige l’esperienza della morte «per introdurre la trasformazione». L’immortalità che insegue Sexton non è nelle labili «nove vite» di Plath, né nel misticismo incredulo di Dickinson, ma nella coazione del lutto che è ciò che fa convergere parole sotto il segno della mutazione, spingendo all’evoluzione in altra entità, essenza, coscienza. In questo senso il suo poetare è decisamente costruttivo.
La lettura della propria morte muove la ruota mondana di Sexton, una sfera su cui si volge la filatura della metamorfosi. E quale figura più appropriata per tali rivoluzioni dell’anima se non un uccello? (per le api, invece, bisognerà fare un discorso a parte): «Il lavoro delle parole mi tiene sveglia – scrive in «L’uccello dell’ambizione» – Sto bevendo cioccolata, / la calda mamma marrone. // Vorrei una vita semplice / ma di notte / metto via poesie in una lunga scatola. // È la mia scatola dell’immortalità, / il mio piano di investimento, / la mia bara. // Per tutta la notte ali scure / afflosciate nel mio cuore. / Ognuna è un uccello dell’ambizione. // L’uccello vuole essere lasciato cadere / da un luogo alto. // L’uccello vuole accendere un fiammifero / e immolarsi. // Vuole volare nelle mani di Michelangelo / e uscirne dipinto sul soffitto. // Vuole forare l’alveare del calabrone / e uscirne con una lunga divinità. (…) // Vuole prendere congedo fra gli estranei / distribuendo pezzi del proprio cuore come antipasto. // Vuole morire cambiandosi d’abito / e sfrecciare verso il sole come un diamante» (da Il libro della follia, con un ammiccamento a Erasmo e al Libro dei morti).
È forse l’uccello sul ramo d’oro quello che Sexton cerca nel corteggiare il lutto di se stessa, la sua agognata caduta, visionata in spirali di transustanziazioni? Vuole conquistare per sé l’uccello metafisico che eternizza lo spirito in arte, rivolgendosi, addirittura, al possente Michelangelo della Cappella Sistina? O penetrare il segreto del nido dorato del calabrone? Diventare un diamante? Può darsi. È un’ambizione che muove spesso i poeti di vigore.
Sexton, tuttavia, non sa svestirsi del tutto dell’abito cristiano che ha ricevuto dagli avi e faticosamente prova a cercare anche la «grazia». Lo fa con il volo in «Frenesia»: «Oh angeli, / lasciate aperte le finestre / che io possa arrivarci (…) / come un’ape che punge il cuore tutto il mattino»; o con una finale remata verso Dio («La fine del remare»): «Ormeggio la barca a remi / al porto dell’isola chiamata Dio. Il porto è a forma di pesce». Ma prima che arrivarci a quel porto sicuro dalla forma cristologica, guardiamola mentre rifinisce la sua «bara» dell’immortalità, lo scrigno di parole transustanziate che con umiltà leggiamo.