Con le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma è definitivamente tramontata la parabola del centrosinistra. Di quelle politiche amministrative che per circa un ventennio hanno connotato, con maggiori o minori successi, le politiche amministrative locali.

Ebbene, con il chirurgo genovese si è invano tentato di farle sopravvivere, malgrado fosse evidente fin da subito l’impossibilità di continuare ad attuarle. E’ stato necessario consumare un tormentato biennio per accorgersi di quanto ingannevole fosse stato quel tentativo e di quanti disperanti equivoci contenesse. E oggi quest’esperienza s’infrange proprio su quel malinteso iniziale.

E’ davvero difficile trovare un sindaco più obbediente e zelante di lui nell’applicare le politiche economiche dettate dal governo e conformarsi acriticamente alle misure di austerità e ai piani di rientro imposti dall’amministrazione statale.

In quest’ultimo scorcio, la città ha visto progressivamente ridursi la spesa sociale e indebolirsi allo stremo la rete di sostegno per le fasce più esposte e bisognevoli. Così come diminuire sensibilmente gli stanziamenti per la manutenzione urbana e per il trasporto pubblico, lasciando ulteriormente deperire le aree periferiche e stremando la già precaria e insufficiente rete di autobus e metropolitane.

Ma tagli e saccheggi si sono abbattuti anche sulle attività culturali e la cura del patrimonio artistico, archeologico e architettonico. E nel contempo, tra sgomberi e colpevoli abbandoni, si è preferito spegnere e deprimere la grande vitalità creativa e progettuale indipendente, dall’Angelo Mai al Teatro Valle, dal cinema America al Rialto occupato, a Scup.

Stesso impianto ferocemente liberista è stato praticato nelle politiche di svendita e privatizzazione di beni comuni, aziende pubbliche e patrimonio comunale. Stessa logica padronale è stata imposta contro i propri dipendenti, riducendo salari e indennità. Stesso meschino disinteresse si è manifestato sul destino dei lavoratori di aziende e cooperative che svolgono attività per conto del Comune. E tutto ciò, nella totale assenza di una qualsiasi strategia di crescita economica della città, se non quella derivante dalle grandi opere e dai grandi eventi, le generose volumetrie dello stadio della Roma, la grottesca grandeur della candidatura alle Olimpiadi e l’imminente, inaspettato Giubileo.

Ecco perché, fin dall’inizio, la stagione politica del sindaco Marino era pesantemente ipotecata da quegli obblighi politici, a cui volentieri si è conseguentemente allineato. E le stesse lodevoli iniziative che tuttavia sono state realizzate in questi due anni, dalla chiusura della discarica di Malagrotta, all’avvio della pedonalizzazione dei Fori, all’istituzione del Registro per le unioni civili, pur se meritevoli di giudizi positivi, non modificano l’impronta decisamente liberista, l’angustia culturale della sua esperienza amministrativa.

Avrebbe dovuto andarsene prima, il sindaco Marino. Prima di questa oscena sceneggiata sugli scontrini mendaci, prima di questi imbarazzanti viaggetti americani, prima insomma di tutto questo malsano chiacchiericcio che ha finito per travolgerlo. Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente.

Non esiste un Pd buono e uno cattivo. Solo se riusciremo definitivamente a rendercene conto, potremo avviare a sinistra una nuova stagione alternativa.