«Non voglio morire e nessuno può obbligarmi ad arruolarmi». I., 26 anni, è fuggito dalle bombe russe su Kharkiv e dal divieto di lasciare il paese imposto agli uomini dal governo di Kiev.

Sarebbe dovuto restare a combattere e ora, davanti al flusso continuo di donne, vecchi e bambini che arrivano dall’Ucraina, si sente in imbarazzo. Aspetta in disparte, la testa china. Sa che il suo posto non è quello.

A Beregsurany, Ungheria, le guardie di frontiera chiudono gli uffici della dogana alle 19 in punto. Al loro posto prendono posizione i militari. Chi è ancora in fila dal lato ucraino torna indietro. La notte è fredda, ma «è di notte che arrivano i disertori, passando per i campi o per il bosco», dice il parroco del luogo che, con la Caritas ungherese, lavora all’help center a poche centinaia di metri dal confine.

«UNA DECINA OGNI NOTTE. Arrivano stremati, fuggono da chi li dovrebbe proteggere – aggiunge il parroco – Noi li aspettiamo qui, sanno dove trovarci. Poi li portiamo alla stazione di polizia perché i loro documenti non sono in regola e noi non possiamo registrarli. Però non respingiamo nessuno, lo status di rifugiato viene dato anche agli uomini».

I. ha i pantaloni strappati e sporchi di sangue e fango. È passato attraverso un cespuglio di rovi, un ramo gli ha ferito la coscia. Cerca un ricambio nella grande pila di vestiti che i volontari hanno messo a disposizione dei profughi.

«Ma da uomo qui non c’è niente – dice – Mi mancano i miei abiti. Quando trovai lavoro, mio padre mi regalò cinque vestiti fatti su misura e cinque camicie con le iniziali ricamate. Erano il ricordo più importante che avevo di lui, ma non sono riuscito a portarle con me».

La sua fuga è iniziata il primo giorno dell’invasione russa. «Siamo stati svegliati da un gran boato. Kharkiv è stata bombardata subito. Con la mia fidanzata abbiamo deciso di andarcene immediatamente, avevamo paura di restare in trappola come è successo a molti nostri amici. Abbiamo preso i nostri due gatti, messo in valigia due pc e qualche cambio e siamo partiti per Dnipro con la macchina».

PER RAGGIUNGERE la città sul fiume Dnepr, distante poco più di 200 chilometri, «ci abbiamo messo un giorno intero, le file ai benzinai erano infinite e i posti di blocco continui». Una sosta di una notte a casa di amici, poi di nuovo in viaggio verso il confine con la Romania: «Lì abbiamo provato a corrompere le guardie di frontiera con tutto il contante che ci era rimasto. Ci hanno respinto, ma si sono presi i soldi, dicendo che era il prezzo per non arrestarci».

Il viaggio di I. è poi continuato verso la Transcarparzia. «Sapevo che in questa zona ci sono solo campi e piccoli boschi e attraversarla a piedi è facile, mentre la mia fidanzata può passare con l’auto. Ma arrivare qui non è stato semplice. La benzina è razionata, se ne possono comprare solo 20 litri a persona ogni giorno. Abbiamo dormito in macchina per una settimana. Avevamo dimenticato di prendere le coperte e all’inizio è stata molto dura. La prima notte passata in strada pensavamo di morire. Per fortuna, la sera dopo un’auto dell’esercito si è fermata a controllare chi fossimo e ci hanno dato delle coperte. Non so se ce l’avremmo fatta senza quell’aiuto».

Ma è proprio dal suo esercito che I. sta scappando. «Molti pensano che rimanere e combattere sia la cosa giusta. Qualcuno pensa anche che si possa vincere. Ma io non ci credo, ho paura. Un mio caro amico combatteva nel Donbass, di lui non è rimasto nulla. Ai genitori hanno spedito una bara vuota, io non voglio fare quella fine. Voglio pensare al futuro».

NEL FUTURO di I. c’è il matrimonio con la sua fidanzata. Si sarebbe dovuto celebrare già a gennaio, ma la morte di sua madre li ha costretti a rinviare la data.

«Poi i figli, ne vogliamo quattro – dice – Fino allo scoppio della guerra, avevamo una vita normale. Io sono un ingegnere, ho studiato per un anno a Londra, la mia fidanzata è architetta. Cercheremo lavoro, forse in Polonia, in Germania o in Inghilterra. Restare non ha senso: abbiamo lavorato insieme alla costruzione di un palazzo a Kharkiv, ieri i nostri amici ci hanno mandato una foto. È completamente distrutto».

Chi è rimasto, dice I., «rispetta la mia scelta. Non mi giudicano, anzi. Capiscono la mia situazione. Chi resta lo fa per difendere qualcosa o qualcuno. Noi non abbiamo più famiglia, siamo da soli. Abbiamo il diritto di ricominciare da qualche altra parte. Nessuno, né Putin né Zelensky, può decidere per le nostre vite».