«È stato solo un inganno, gli egiziani dicevano che avrebbero aperto il transito di Rafah per quattro giorni e invece l’hanno chiuso dopo appena 24 ore». Jamil Hammouda, un giornalista che abbiamo raggiunto telefonicamente ieri a Gaza, ci ha riferito della disperazione di migliaia di palestinesi che contavano di poter raggiungere il Cairo. Persone gravemente ammalate, genitori che non vedono i figli da mesi, studenti diretti ad università in altri Paesi arabi. Dovranno aspettare ancora e per quanto non si sa. «E dall’altra parte ad El Arish – ha ricordato Hammouda – ci sono centinaia di persone che attendono da settimane di tornare a casa».

Il valico di Rafah, tra Gaza e il Sinai, è l’unica porta che due milioni di palestinesi hanno sul resto del mondo arabo. L’altro, quello di Erez a nord è accessibile solo a quei pochi che, dopo lunghe attese, riescono ad ottenere un permesso israeliano per superarlo. Il blocco di Gaza, anzi, è più giusto chiamarlo assedio, da parte di Israele ed Egitto è ferreo. E lo pagano oltre 2 milioni di civili e non, come affermano Tel Aviv e il Cairo, il movimento islamico Hamas che dicono di voler colpire. L’Egitto ha motivato la chiusura di Rafah con la mancanza della necessaria sicurezza per i palestinesi in viaggio per il Cairo. «In realtà il valico è stato chiuso non appena sono transitati quei pochi che hanno potuto pagare tremila dollari (alle autorità egiziane, ndr)», ha spiegato Hammouda riferendosi alle “tariffe” che garantiscono il passaggio sicuro del valico.

Congelati gli accordi di riconciliazione tra Hamas e il partito Fatah del presidente dell’Anp Abu Mazen, Gaza sta precipitando in una crisi umanitaria devastante. Gli stessi israeliani nei giorni scorsi hanno lanciato un appello al finanziamento urgente di un loro piano per Gaza: con il blocco strangolano la Striscia e con le donazioni vorrebbero far respirare un territorio che hanno contribuito a trasformare in una enorme prigione. Ben diverso è l’appello che ha lanciato l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a favore del sistema sanitario di Gaza al collasso e su 1.715 palestinesi che stanno per morire tra cui 113 neonati, 100 pazienti in terapia intensiva e 702 in emodialisi. L’Oms chiede aiuti per 11,2 milioni di dollari necessari a soddisfare i bisogni di salute per i prossimi tre mesi. E solleva il velo dell’indifferenza sugli interventi chirurgici rimandati, sulle culle di terapia intensiva che ospitano talvolta quattro neonati, sui 6.000 operatori sanitari che da mesi ricevono il 40% del loro salario. «Senza finanziamenti nel 2018 – avverte l’Oms – 14 ospedali e 49 strutture di cure primaria dovranno affrontare una chiusura totale o parziale, con un impatto su 1,27 milioni di persone». Tre ospedali e 13 cliniche di assistenza primaria hanno già chiuso per la mancanza di energia elettrica. Scarseggiano i farmaci salvavita. Ad appesantire il quadro c’è lo stato di emergenza proclamato dai municipi di Gaza. Senza più fondi le amministrazioni locali sono state costrette a dimezzare i loro servizi fra cui la nettezza urbana e la gestione del sistema fognario e a vietare, per il forte inquinamento, i bagni in mare. L’erogazione dell’acqua nelle case è stata limitata ad un’ora appena al giorno.

E intanto resta alto il rischio di un nuovo conflitto con Israele che nei giorni scorsi, in risposta ad un attacco a una sua pattuglia lungo il confine, ha lanciato ripetuti raid aerei contro presunte postazioni di Hamas. È stato l’attacco dal cielo più ampio dalla guerra del 2014. Il generale Yoav Mordechai ha avvertito che Israele reagirà con forza a nuove manifestazioni di protesta sul confine. Negli ultimi mesi 15 dimostranti di Gaza sono stati uccisi da fuoco israeliano. Un altro palestinese, Yassin al Saradih, 33 anni, è morto ieri due ore dopo essere stato picchiato e arrestato da soldati a Gerico, in Cisgiordania. Un video mostra i militari che lo colpiscono con forza mentre è a terra.