Ogni uomo politico ha bisogno di costruirsi un profilo internazionale, e uno dei migliori teatri per farlo è tradizionalmente New York, la città internazionale per eccellenza. Così, tra appuntamenti istituzionali e una cena con Marchionne, la visita americana di Enrico Letta ha incluso una lezione alla Columbia University, una delle culle dell’establishment americano (un anno di master qua può costare sui 30.000 dollari), dove negli anni recenti sono passati personaggi come Sarkozy, Barroso, Erdogan e Ban Ki-moon. Quasi un passaggio obbligato per un politico che ambisce, nonostante e malgrado tutto, a sopravvivere al governo fino al semestre di presidenza europea dell’Italia, che comincia nel luglio 2014.
Davanti a un pubblico di studenti della Columbia e delle scuole superiori, Letta – confuso con Gianni in un lapsus del moderatore – ha parlato dunque di Europa e del ruolo dell’Italia, e ha mantenuto un tono molto pragmatico, lasciando pochissimo spazio a divagazioni e battute (l’unica degna di nota: we Italians are good, but we are better if we have deadlines, «noi italiani siamo bravi, ma siamo migliori quando abbiamo delle scadenze»). Sul palco della Low Memorial Library, sovrastato dalla cupola neoclassica di quello che è l’edificio più celebre del campus della Columbia a Morningside, a nord di Central Park a Manhattan, si è sentito abbastanza distante dall’Italia da poter prescindere dalla questione del futuro del suo governo e di questo parlamento.
Forse più interessante della lezione è stata la fase successiva, le domande del pubblico, ovvero Q&A (Questions & Answers), come le chiamano qui. Uno studente di origine cinese ha raccontato che, in una ricerca effettuata per un corso di economia, ha messo a confronto la crescita dei paesi del G7 dal 2001 al 2011, rimanendo sorpreso di trovare all’ultimo posto proprio l’Italia. La sua domanda al premier italiano sulle ragioni di questo stato di cose ha assunto un significato tutto particolare, provenendo dal cittadino di un paese in cui la crescita di quegli anni sfiorava la doppia cifra. Da uno studente italiano della Business School, invece, la domanda sulla disoccupazione giovanile, un aspetto che era stato ignorato da Letta durante la lezione.
Letta ha esibito un buon inglese, un aspetto notato da molti degli espatriati italiani che hanno partecipato all’evento. «Dal punto di vista della presenza – dice Paolo, ricercatore alla Columbia Medical School – mi ha fatto un’impressione positiva, di professionalità. Poi naturalmente c’è anche la dote tutta italiana di scansare le domande».
Del resto, come osservano Laura ed Enrica, studentesse della Law School, «noi italiani negli ultimi anni siamo stati abituati a livelli molto bassi nei discorsi pubblici dei nostri premier». Enrica aggiunge che è stata molto sorpresa di sentirlo così ottimista riguardo alle prospettive future dell’Italia e di lui come premier. Con loro c’è una compagna di corso tedesca, Tanja, che Laura e Enrica cercano a più riprese di coinvolgere nella conversazione. Ma pur invitata a dare la sua opinione, Tanja rimane restia a parlare. Si limita a dire che la lezione le è piaciuta, forse percependo che è chiamata in causa anche in quanto tedesca e che, se si parla di Ue e dei rapporti tra Germania e Italia, ogni sua parola rischia di essere presa troppo sul serio.
Finita la lezione, gli studenti fanno la coda per riprendere le borse, ritirate per la durata dell’incontro dalla zelante sicurezza. Letta, con il suo piccolo gruppo di assistenti, addetti stampa e guardie del corpo, si sposta di un paio di isolati, all’Italian Academy, dove lo aspetta la conferenza stampa in cui riprenderà a parlare della politica “vera” e chiederà il «chiarimento». Ancora per un paio d’ore Amsterdam Avenue, la strada che costeggia il campus della Columbia, è bloccata da una lunga fila di macchine della polizia.