I figli dei lavoratori nei servizi essenziali, come la sanità, seguiranno le lezioni in didattica a distanza (Dad) al 100% e non andranno a scuola in presenza nelle zone rosse e in quelle dove i contagi colpiscono oltre 250 persone su 100 mila abitanti in una settimana. È l’ultima decisione del ministero dell’Istruzione, comunicata in una nota domenica scorsa, dopo che il giovedì 4 lo stesso ministero aveva diffuso un’altra nota che sosteneva il contrario e lasciava la decisione alle regioni. Alcuni retroscena attribuiscono il repentino dietrofront al cambiamento in corso al vertice del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione.

Alla base c’è un problema non ancora risolto: non è chiaro infatti il modo in cui possono essere individuati i settori «essenziali» sulla base della lista dei codici Ateco allegata a un Dpcm risalente al 22 marzo 2020. Fonti dal ministero hanno fatto sapere che occorrono ulteriori «approfondimenti». Un anno non è bastato. Ora dovrebbero essere realizzati dopo la chiusura delle scuole anche nelle zone gialle e arancioni (di diversa intensità), oltre a quelle dove le regioni disattendono i Dpcm e decidono autonomamente le chiusure dell’attività didattica in presenza per le scuole di ogni ordine e grado.

Il problema è emerso dopo il 2 marzo quando è stato reso noto il nuovo Dpcm che ha rimesso in didattica a distanza complessivamente circa sei milioni di studenti, tranne gli alunni con disabilità, con bisogni educativi speciali e quelli che hanno bisogno di usare, a turno, i laboratori. I figli dei lavoratori nei servizi essenziali non sono stati citati nel testo. Ciò ha provocato una serie di richieste di chiarimenti da parte di almeno quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Toscana. Da Milano Fontana e Moratti hanno scritto anche al ministro della sanità Roberto Speranza per avere delucidazioni.

In un duro comunicato i sindaci dell’Anci e la regione Emilia Romagna hanno criticato la prima nota del ministero, quella di giovedì 4 marzo, definendola «inapplicabile» e «senza un fondamento giuridico chiaro», anche perché «confliggente» con il Dpcm firmato da Draghi. Si scopre così che, anche lì dove è stata applicata in questi mesi, la norma non era fondata e non è mai stata chiarita sebbene sia prevista nel «Piano scuola 2020-2021». Loredana Poli, assessore all’Istruzione del Comune di Bergamo, sostiene che nemmeno la regione Lombardia ha risposto alle richieste dei genitori lavoratori, oggi ancora più necessaria dato che è stata introdotta «una fattispecie che non esiste, cioè la zona arancione rafforzata».

L’ex ministra Azzolina ha ricostruito l’accaduto in questo modo: «Il Ministero dell’Istruzione ha fatto marcia indietro sui figli dei lavoratori essenziali. Probabilmente su pressione delle Regioni. Lo considero un errore. Comunicato tra l’altro a poche ore dall’apertura di uffici e attività». In realtà, come sostiene la regione Emilia Romagna, la definizione dei «servizi essenziali» non è mai stata chiarita sin dal governo di cui Azzolina faceva parte. Il fatto che manchi nel Dpcm è una conferma, in attesa di «approfondimenti». Resta il fatto che i figli dei lavoratori della sanità hanno trovato da ieri le porte chiuse a scuola. Filippo Anelli, Ordine dei chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), ha espresso «amarezza» per «il nuovo pasticciaccio» e ha chiesto il ripristino della deroga alla Dad.

Sono ricominciate ieri le proteste degli studenti contro il nuovo governo che, come il precedente, le chiude per prime e le riaprirà forse per ultime. A Torino si sono radunati con tablet e coperte a piazza Castello davanti alla Regione. «Meglio un lockdown totale che la chiusura della sola scuola. Avrebbe più senso» ha detto Anita, la studentessa di 12 anni, già simbolo della protesta nei mesi scorsi. «Continuiamo a chiedere i dati che dimostrino che noi studenti siamo veicolo di contagio e che per questo chiudono le scuole ma non ci dimostrano il perché».