Un padre e una figlia, lui narcisista, affascinante, egotico, lei che ha preso le distanze dalla sua voracità esistenziale e al tempo stesso non può o forse non vuole sottrarsi del tutto. È da qui che comincia Tout s’est bien passé il nuovo film di François Ozon, in Italia col titolo È andato tutto bene – era in concorso allo scorso festival di Cannes – nel quale questa relazione filiale prende forma in un passaggio che ne amplifica conflitti e strana tenerezza, bisogni reciproci e asprezze, e nell’interrogare le vite di entrambi i protagonisti – duetto magnifico tra Sophie Marceau e Andrè Dussolier – dentro e fuori campo,negli oblii necessari al suo accadere accende altri interrogativi che riguardano ognuno di noi, e toccano il sentimento del lutto, i suoi segreti, le rimozioni nel tempo di ciò che ci fa male.

CHE FILM è dunque quello di Ozon? All’origine c’è il libro omonimo (Gallimard, 2013 – la traduzione in Italia è uscita per Einaudi e il film ne ha mantenuto anche qui il titolo, È andato tutto bene – in cui Emmanuèle Bernheim scrittrice, sceneggiatrice, amica di Ozon col quale ha scritto diversi film, da Sous la sable (2000) a Ricky (2009), racconta la propria esperienza col padre, André Bernheim (Dussolier), collezionista d’arte brillante e vitalissimo a dispetto dei suoi ottant’anni, che rimane paralizzato a causa di un grave infarto perdendo ogni autonomia, e così le chiede di accompagnarlo a morire. In Francia non si può, dovranno andare in Svizzera, eludere sospetti, controlli, affrontare i rischi del viaggio, cercare la rete di persone giuste. Non è però questo – non solo, non subito – che mette in gioco la richiesta ogni giorno più perentoria fatta alla figlia maggiore con cui i rapporti sono più conflittuali da quel padre odiato e amatissimo ma i fantasmi che agita nei sentimenti, nelle emozioni, nelle responsabilità: cosa significa e che comporta tale scelta, in che modo affrontare il resto della famiglia – la madre è ormai lontana chiusa nella sua quasi follia che lo odia (è Charlotte Rampling) forse per la sua omosessualità e per quel matrimonio di convenienza, la sorella. E Emmanuèle (Marceau) – non ha scelta di fronte l’ostinazione dell’uomo che ha già pianificato tutto, pure la sua sepoltura, e subisce quella perentorietà ultimativa come l’ennesimo gesto di egoismo di un padre – che da bimba la insultava mentre lei divorando dolci sognava di ucciderlo con una pistola. E ora?

«COME fanno i poveri che vogliono morire?» le chiede Andrè quando gli dice il prezzo del suicidio assistito. Anche morire in certi casi è un lusso. Dire però che È tutto andato bene è un film sull’eutanasia sarebbe comprimerlo a un solo aspetto, che è importante e ne origina il movimento narrativo, ma Ozon è un autore che quando si confronta con soggetti «gravi» ne cerca sempre una rappresentazione che prende forma a partire dai suoi personaggi, dalle loro emozioni, dalla loro «battaglia» per fare fronte a una paura e a una fragilità. Qui sono quelle della «sua» Emmanuèle, di cui cerca nelle pagine i frammenti di un’esistenza, le zone d’ombra, lo spaesamento: un personaggio dentro la vita. Il «diario» dei mesi e delle settimane, delle incomprensioni e delle fragilità, del quotidiano della protagonista insieme al suo compagno, il critico e storico di cinema Serge Toubiana (Erica Caravaca), si intrecciano a questa «fotografia» di relazioni famigliari, che sono probabilmente nel libro ma che appartengono anche all’universo del regista.
Ozon rifugge la retorica, accorda i generi con l’umorismo della commedia, il thriller, il melodramma sentimentale nel confronto con la prima persona altrui dell’amica, che a sua volta trasfroma in personaggio: del resto il dato «vero» è di partenza un’autofinzione, quella appunto di Emmanuèle, e nella moltiplicazione di distanza narrativa Ozon riesce a ritrovarla. Anche perché lei intanto non c’è più, morta di cancro nel 2017 mentre stava lavorando allo stesso film insieme a Alain Cavalier, un altro suo grande amico. Il film di Cavalier, Etre vivant et le savoir, diviene un’altra cosa, un memoir in cui il «filmeur» oscilla tra il sentimento della morte e della vita, la materia del cinema, le immagini che si fanno memoria, l’emozione struggente di quella perdita. Gli stessi fantasmi che attraversano il film di Ozon, che ancora una volta li fa «rivivere» nella scrittura, in quello spazio aperto tra il gesto di filmare e la parola, laddove tutto diviene ancora possibile