È noto che uno dei terreni di (cosiddetta) mediazione sul ddl Zan passa per il sacrificio dell’articolo 7, che istituisce la Giornata contro l’omo-bi-lesbo-transfobia prevedendo che le scuole (e le altre amministrazioni pubbliche) organizzino «ogni iniziativa utile» per «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione» e per «contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere».

Chi propone di togliere di mezzo questo articolo paventa due rischi: l’indottrinamento degli alunni sulla base della fantomatica «teoria gender» e la violazione dell’autonomia scolastica. Vorremmo rassicurare gli aspiranti mediatori: l’approvazione del testo invariato non comporterebbe tali pericoli.

Già la renzianissima legge 107/2015, conosciuta come «Buona scuola», prevede l’impegno contro «tutte le discriminazioni» (articolo 1, comma 16), quindi anche quelle motivate dalla così temuta «identità di genere», essendo tale concetto già consolidato, all’epoca dell’approvazione della 107, nel diritto europeo e quindi anche in quello italiano.

Ma anche facendo finta che l’Europa non esista, pochi sanno che di «identità di genere» si parla in una norma nazionale addirittura del lontano 1998, lo «Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria» (Dpr 249/1998). Così recita all’art. 1 comma 3: «La comunità scolastica (…) contribuisce allo sviluppo della personalità dei giovani, anche attraverso l’educazione alla consapevolezza e alla valorizzazione dell’identità di genere, del loro senso di responsabilità e della loro autonomia individuale (…)».

Quella dello Statuto, vigente – ripetiamolo – dal 1998, è una disposizione assai più impegnativa di quella del ddl Zan. Già ora le scuole devono educare alla consapevolezza e – udite udite – alla valorizzazione dell’identità di genere, mentre la normativa in discussione al Senato si limita al contrasto dei pregiudizi in occasione di una giornata. Viene da chiedere ai preoccupati mediatori: in questi 23 anni abbiamo assistito a inquietanti mutazioni antropologiche della nostra gioventù, all’imposizione violenta a menti innocenti e pure dell’opera omnia di Judith Butler (filosofa eletta a idolo negativo degli anti-Zan) da parte di docenti posseduti dal «virus genderista»? Non scherziamo.

Nelle scuole italiane su questi temi si agisce forse troppo poco, ma lo si fa con intelligenza e sensibilità: lo garantiscono sia la professionalità del corpo docente (la cui libertà d’insegnamento è intesa anche come autonomia didattica), sia la libera auto-organizzazione di studentesse e studenti nelle loro assemblee e autogestioni. La scuola democratica è un luogo pluralista, dove i progetti educativi «trasversali» sono accuratamente discussi e preparati, senza imposizioni ideologiche di nessun tipo. E l’approvazione del ddl Zan non cambierebbe, ovviamente, nulla di tutto ciò. Chi pensa che sia possibile indottrinare, forse, ha in mente le scuole del ventennio fascista e non conosce quelle di oggi.

Così come l’applicazione dello Statuto del 1998 non mette in discussione l’autonomia scolastica, altrettanto non farà la nuova legge. Perché l’autonomia scolastica – piaccia o no – è un principio a priori del nostro sistema. E poi perché lo stesso ddl si richiama alla normativa vigente in materia di autonomia, quando si riferisce al «piano triennale dell’offerta formativa». Tradotto: le scuole cattoliche paritarie applicheranno quanto prevede il ddl Zan, così come dovrebbero applicare lo Statuto del 1998, sulla base del loro piano dell’offerta formativa. E cioè sulla base del documento che rappresenta la carta d’intenti di ogni istituto, stabilendo, nel caso delle scuole private, il loro legittimo indirizzo culturale. Spiace per i mediatori, ma non c’è, davvero, nulla da temere.