Rimane ricoverata a Dallas l’infermiera Nina Pham di 26 anni, la prima persona a contrarre l’Ebola nel continente Americano. Per le autorità non poteva esserci notizia peggiore. Il contagio di Dallas infatti infrange la narrativa della malattia contenibile a patto di aderire a precise profilassi di biocontenimento. A Dallas il personale medico, compresa l’infermiera ammalata, avrebbero curato Thomas Eric Duncan, il «paziente zero» giunto malato dalla Liberia, utilizzando tutte le misure di precauzione prescritte comprese tute integrali e procedure di isolamento in teoria di gran lunga superiori a quelle disponibili nel focolaio africano dell’epidemia. Malgrado questo un unico primo caso ha prodotto un infezione, smentendo in sostanza tutte le assicurazioni del Center for Disease Control and Prevention (Cdc) sulla presunta efficenza della macchina antiepidemiologica americana.

Di fatto pur avendo avuto mesi per predisporre misure adeguate, il sistema ha registrato da subito clamorosi fallimenti. Intanto un malato grave proveniente dall’Africa occidentale è stato rispedito a casa in seguito a un errore di diagnosi e una volta preso in cura non si è riusciti a evitare un contagio fra il personale curante. La risposta del Cdc è stata di denunciare un «sicuro errore nel protocollo» come presumibilmente accaduto anche nel caso madrileño. Ma gli sviluppi di Dallas hanno oggettivamente creato forte preoccupazione, fra la popolazione e sicuramente fra gli operatori della prima linea di difesa.

Mentre in Liberia come in Spagna il personale sanitario rivendica migliori condizioni di sicurezza (e remunerazione) per il loro pericoloso lavoro, si teme per l’effetto che la notizia potrà avere sul morale di volontari e cooperanti nel momento in cui si tenta di incrementare la risposta sul campo in Africa. Ad esempio fra le truppe della divisione 101 Airborne che dalla base di Fort Campbell in Kentucky per ordine di Obama si stanno preparando a partire per una «missione di supporto» in Liberia, ci sarebbe già chi recrimina per il combat pay, il gettone pagato alle truppe spedite al fronte nei conflitti armati, non previsto in questo caso. Ieri Thomas Frieden, il direttore del Cdc, nel fare l’ennesimo appello alla calma ha ipotizzato per la prima volta di trasportare eventuali nuovi casi nell’ospedale di Emory ad Atlanta e il Nebraska Biocontainment Center di Omaha, centri super specializzati dove il personale è specificamente addestrato nella cura di malati altamente infettivi e dove sono stati ricoverati alcuni dei pazienti rimpatriati dall’Africa, fra cui Kent Brantly e Nancy Writebol. Non esattamente un voto di fiducia per il Texas Health Presbyterian, dove sono avvenute le fatali sviste.

A Dallas intanto l’appartamento dell’infermiera malata è stato decontaminato e sigillato dai soliti lavoratori in tuta gialla recanti grossi contenitori da biohazard. Agenti municipali e del Cdc hanno fatto le ronde nel quartiere distribuendo volantini e informando i vicini sulle precauzioni da prendere. Nella città texana dove sono già in quarantena i famigliari di Duncan, il primo paziente deceduto, e sotto osservazione una quarantine di suoi potenziali “contatti” si stanno ora individuando quelli della seconda vittima e potrebbero venire osservati fino a un centinaio di persone. Verrà inoltre controllato più strettamente anche tutto i personale venuto in contatto con Duncan anche durante la sua prima visita al pronto soccorso, quando la sua condizione non venne riconosciuta. Frieden ha detto che il Cdc sta svolgendo indagini approfondite per cercare di individuare quale possa essere stato il meccanismo di contagio a Dallas, esaminando in particolare le intubazioni e la dialisi praticata a Duncan negli ultimi stadi della malattia, quando più alto era il tasso virale nel suo organismo e quindi più elevato il rischio di infezione.

Allo stesso tempo le autorità stanno intensificando gli sforzi per formare personale medico nel corretto uso delle misure di prevenzione ammettendo che sono «probabili» nuovi casi di Ebola.

Da ieri sono attivi i controlli nei cinque aeroporti americani di maggiore traffico verso l’Africa occidentale. Le stesse autorità riconoscono però che i controlli non sono sufficienti a garantire un rischio zero. Si tratta in altre parole di misure simboliche mirate a rassicurare un’opinione pubblica che da ieri è certamente più preoccupata e un po’ meno fiduciosa nelle stesse continue rassicurazioni.
Ad incrementare le polemiche ci ha pensato invece il dott Francis Collins, direttore del National Institute of Health affermando che un vaccino per l’Ebola potrebbe già esistere se non fosse per i progressivi tagli alla ricerca dell’ultimo decennio. «Non ci siamo mica svegliati ora – detto Collins all’Huffington Post – È dal 2001 che ci lavoriamo: con i finanziamenti adeguati probabilmente oggi disporremmo già di un vaccino efficace».