All’una e quaranta di notte Lorenzo Guerini arriva nel salone della direzione del Pd. L’uomo a cui Renzi ha delegato la gestione degli affari interni del partito e che ora deve accollarsi troppe responsabilità, alcune sue molte altre no,  ha una cosa da dire.  Mezz’ora prima davanti ai giornalisti si era presentato il presidente del Pd Matteo Orfini ad ammettere che la sfida è più complicata del previsto ma in ogni caso «non ci saranno conseguenze sul governo». La faccia pallida e la camicia stropicciata del presidente  non convincono nessuno. Ora però, all’una e quaranta della notte più lunga del Pd, qualcosa è cambiato. Alle prime proiezioni l’Umbria, l’operosa Umbria rossa, è tornata al centrosinistra. Nel cataclisma generale, nell’impazzimento totale delle cifre, almeno una cosa è tornata al suo posto. E finalmente al piano di sotto, dove Renzi è chiuso con i suoi,  uno straccio di idea di comunicazione è venuta: «Se fossero confermate le tendenze che stanno emergendo nel dibattito tv, il 5 a 2 sarebbe un importante risultato per il Pd», dice Guerini,  «significherebbe che rispetto al passato oggi, nelle regioni che sono andate al voto da quando è in campo la segreteria Renzi, avremmo 10 governatori di centrosinistra e solo due di centrodestra».

Il tentativo di spin è disperato, ma anche la situazione lo è. Come la foto che il capo della comunicazione del Pd Filippo Sensi, il grande regista di tutte le ‘spinnate’ del presidente, twitta su Instagram: ci sono Renzi e Orfini che giocano alla playstation mentre aspettano i dati delle regioni. Vorrebbe dire: calma ragazzi, va tutto bene.

E invece è l’immagine di un segretario del partito che in fondo se ne frega. Fa un’impressione brutta, molto brutta.

Il fatto è che al Nazareno, dove pure negli ultimi giorni si era intereccettata l’ariaccia che arrivava dalle regioni,  i dati reali hanno tradito le peggiori cassandre: a quell’ora la ligure Paita ha perso definitivamente contro Toti, che in tv mostra lui stesso una faccia incredula per una vittoria alla quale mai avrebbe pensato; la veneta ladylike Alessandra Moretti – sconfitta annunciata – è andata particolarmente male ed ha persino ha preso molti meno voti di Bortolussi, l’oscuro candidato del 2005; l’Umbria ha rischiato di essere espugnata dal centrodestra; e la vittoria smagliante di Vincenzo De Luca, con lo svuotamento della lista del Pd e l’affermazione personale del sindaco, consegna a Renzi più problemi che soddisfazioni, neanche quella di prendersela con la presidente della commisione antimafia Rosy Bindi. E su tutte le cattive notizie campeggia la peggiore: l’affluenza al voto che acciuffa a stento il 52 per cento. Quasi un cittadino su due di quelli che dovevano votare non l’hanno fatto, esprimento il più esplicito, inappellabile, voto di sfiducia verso i governi regionali e soprattutto quello nazionale.

La verità al Nazareno è chiara, ed è impietosamente illuminata dalla luna piena che splende sopra il terrazzo della bella sede: il momento è arrivato, siamo alla prima sconfitta di Renzi dall’inizio di quella che fin qui sembrava la sua irresistibile ascesa. I contraccolpi del risveglio saranno su tutti i fronti. Quello interno del partito, quello del governo. Inutilmente il presidente del consiglio negli ultimi giorni, fiutando l’aria, ha provato a far passare l’idea che il voto delle regionali «non sono un test su di me». Il voto è un test di salute del partito, e della popolarità di Renzi nel partito. L’esito è: febbre alta, altissima. Renzi è pesto, il suo partito da un anno lasciato alla deriva, è pestissimo. Nella notte i dati continuano ad arrivare nella stanza di Renzi, come un bollettino di guerra. Ma già dall’una e quaranta Matteo Renzi non è più il premier del 41 per cento. E il premier del 5 a 2 non è un premier così forte come era parso fino a ieri.