Corti capelli biondi e ricci, occhi celesti e mani che si muovono in continuazione a sottolineare le parole, Esty Hayim racconta così Vite agli angoli, il suo primo romanzo edito ora in Italia da Stampa Alternativa (pp.414, euro 18, traduzione di Olga Dalia Padoa). «Penso che le vite agli angoli siano quelle della persone che si trovano ai margini della scena. Sono antieroi che portano sulle loro spalle tutta la storia, le vittime della storia». Esseri umani che proprio in virtù del loro essere fuori luogo ne narrano punti di vista diversi: della Shoah ma non solo, anche di una bimba invisibile ai suoi genitori, di una donna che fugge dal proprio destino di figlia e di regina dei profughi, degli esuli, degli espulsi, dei salvati.

Nel libro la protagonista Dvori è una donna adulta, sola, alcolista, alle prese con il proprio passato: una bambina trasparente in una famiglia ungherese di sopravvissuti alla Shoah arrivati in Israele alla ricerca della speranza e della sicurezza. Genitori e nonni che hanno tentato di lasciare in Ungheria la propria storia ma che, stranieri alla nuova patria, non riescono a separarsi dalla lingua, dai sapori e dal proprio passato. Vite agli angoli racconta e rivela l’esistenza della seconda generazione, quella dei figli di coloro che furono bambini nella Shoah: «Il nostro ruolo di seconde generazioni è stato impervio. Abbiamo dovuto da un lato lenire le ferite dei nostri genitori e dar loro consolazione, dall’altro abbiamo dovuto far in modo che i nostri figli fossero una generazione nuova, libera dal trauma. Siamo stati degli intermediari eppure, proprio per questo, noi bambini della seconda generazione non abbiamo avuto il diritto di piangere. Ma i protagonisti di Vite agli angoli non sono solo i sopravvissuti alla Shoah perché di ragazzine trasparenti come Dvori ce ne sono in tutti posti e lo diventano per molti motivi».

NEL ROMANZO, invenzione e autobiografia si intrecciano: «La letteratura – prosegue l’autrice – nasce da un punto e da un luogo sconosciuto, ma le associazioni hanno a che fare con qualcosa di molto profondo e, d’altro canto, il mondo dell’immaginazione è la salvezza stessa della bambina Dvori, in un mondo fatto di parole». Nella notte, nascosta in una nicchia del corridoio, lei assiste non vista e per questo sempre più invisibile, al tentativo feroce della sua famiglia di costruirsi una vita, contro tutto e tutti, in primo luogo contro i propri fantasmi. Fino a quando, come un faro, arriva dall’Ungheria oltrepassando la cortina di ferro, Ester-néni. La zia Ester, una donna bella, vivace, accogliente e misteriosa che lacera la coltre di dolore in cui vive la famiglia. Vede Dvori e prova a sottrarla alla sua trasparenza.
Una donna sul cui conto corre il sospetto di aver usato il proprio corpo come strumento di mercato, prima con i nazisti poi con il regime comunista ungherese. In lei il corpo diventa strumento di vita e irrompe nella narrazione come un turbine di speranza, nonostante il passato oscuro. Ester, nella tradizione ebraica, è anche la donna che sposa il re persiano Assuero e, grazie alla propria bellezza, riesce a salvare gli ebrei dalla catastrofe voluta dal perfido Amman in una vicenda che viene ricordata nella festa di Purim: «Quando ho iniziato a scrivere la sua storia, mi sono anche resa conto che in realtà non ero io che sceglievo di mascherarmi da regina Ester ma erano gli altri che mi travestivano, i miei genitori, i miei famigliari. Erano gli altri a trasformarmi in salvatrice. Così è nata la domanda che ho posto molte volte anche alla riflessione femminista: è giustificato l’uso che la regina Ester fa della propria bellezza per salvare il suo popolo? E per salvare altra gente? È anche l’unica donna della tradizione ebraica che attraverso la scrittura compie una trasformazione, da donna trasparente si trasforma in personaggio forte. I suoi mezzi sono le armi date allora alle donne, quelle disponibili. Non aveva altra scelta».

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LA QUESTIONE riguarda la tradizione ebraica quanto la riflessione femminista, la memoria della Shoah e Ester-néni, personaggio dal passato oscuro: «Spesso giudichiamo con gli strumenti attuali senza tener conto delle circostanze in cui si trovavano. Questo vale sia per la regina Ester che per Ester-néni, e per i sopravvissuti alla Shoah che, nei primi anni della costruzione di Israele, non vennero giudicati abbastanza forti: era necessaria la creazione di un uomo nuovo in un luogo dove non ci si sentisse più vittime».
Ed è la stessa questione su cui sbatte la piccola Dvori nell’Israele degli anni cinquanta e sessanta, «la bambina si inventa uno zio imbarcato su un sottomarino, il Dakkar, che scomparve in mare. Quando i compagni di scuola scoprono la sua menzogna lei rivela che non ha mai avuto uno zio morto nel sottomarino ma ha avuto uno zio morto nella Shoah. Ma Dvori sa benissimo che questo, ancora una volta, non la porterà ad appartenere ma a sentirsi ai margini: per appartenere era sì necessario essere nipote di qualcuno ma di un eroe, non di una vittima». Come la regina Ester, Ester-néni guida Dvori in un’iniziazione alla lettura e alla scrittura: consiglia libri e promette a Dvori una macchina da scrivere per la sua maggiore età religiosa, fino ad allora deve scrivere rigorosamente a mano.

DI ESTY HAYIM sono usciti in Italia due racconti, sempre per Stampa alternativa, il primo You should eat something in Israeliane – l’universo femminile raccontato da 13 scrittrici contemporanee del 2005, il secondo, Dolore nella raccolta Il mare di Gerusalemme, pubblicata quest’anno. «Nel primo libro che ho scritto, una raccolta di racconti – continua Hayim – è narrata la storia di una famiglia simile a quella di questo romanzo e la protagonista si chiama Dvori. Anche nel secondo libro le protagoniste fuggono dal loro passato, dal loro appartenere alla seconda generazione e cercano un’evasione nell’essere invece cosmopolite e persone qualunque. Una di loro si allontana dalla madre che la riempie di medicine perché teme che le possa succedere qualcosa. Dopo quattro libri e un lungo processo di rielaborazione e crescita, ho capito che avrebbe dovuto tornare a casa ed elaborare ciò da cui non può scappare. Anche io sono fuggita da Haifa per andare a Tel Aviv, sono andata in giro per il mondo, ma oggi mi occupo dei miei genitori che sono anziani».

LA VICENDA DI DVORI, come quella di Esty, si svolge a Haifa, alle pendici delle montagne da cui provengono, ossessivi, gli ululati notturni degli sciacalli: «Mio padre quando ero bambina dava da mangiare gli avanzi a uno di loro. Adesso ne rimangono pochissimi, il loro habitat è stato distrutto, ne sono rimasti pochi che, a volte, vanno a rovistare tra la spazzatura: per me questo si collega in modo molto preciso alla sensazione di essere profughi, di essere qualcuno la cui casa è stata distrutta. Anche gli sciacalli di Haifa hanno una vita agli angoli». E pure Dvori, una volta adulta, per liberarsi della propria invisibilità e riappropriarsi della propria storia, dovrà fare i conti con l’ululato angosciato dello sciacallo.