Atroce. Nessun’altra parola si attaglia alla vicenda umana e letteraria di uno dei più controversi scrittori francesi del dopoguerra, Tony Duvert. Nell’agosto del 2008 il suo corpo, in avanzata decomposizione, venne rivenuto nella villetta di Thoré-la-Rochette, un’ansa della Loira, dove si era ritirato da oltre un decennio. La polizia ne trovò il cadavere dentro un vero e proprio cafarnao dove si erano accumulati avanzi di ogni genere, ciarpame, farmaci scaduti, pochi libri e cassette vhs di argomento pedopornografico. Luce e gas, per insolvenza, erano staccati, la cassetta delle lettere stracolma, lontani e obliati i pochi amici, da anni deceduta lì a Thoré sua madre Ferdinande, emblema di un immaginario che giusto nel maternage aveva visto la tragedia di vivere e, anzi, dell’essere al mondo. Benché avesse promesso al suo mentore ed editore Jerome Lindon delle Editions de Minuit il romanzo della sua vita (La passion de Thomas avrebbe dovuto intitolarsi, un testo di formazione immaginato in retrospettiva), Duvert non pubblicava nulla dal 1989, quando era uscito un libretto di aforismi, l’Abecedaire malveillant, dove aveva racchiuso o forse liquidato tanto la sua poetica di scrittore monomane quanto la sua, non meno ossessiva, visione del mondo. Peraltro tutta la produzione di Duvert è raccolta in una decina di libri e la sua attività (di autore isolato, indenne sia dalle ipoteche del Nouveau Roman sia dalle liceità del cosiddetto romanzo di ritorno) si estende, dall’esordio di Récidive (1967), per appena un quindicennio.
Se non sono molti i libri di Duvert, morto a sessantatre anni, quasi inesistente è la sua bibliografia critica nonostante l’avallo di Roland Barthes che all’esordio gli valse il prestigioso Prix Médicis. Resta il fatto che, a cavallo degli anni novanta, Duvert è più o meno silenziosamente divenuto un autore impossibile (nefando, inammissibile) insieme col tabù di cui i suoi romanzi sono latori. La parabola della ricezione è infatti perscrutabile insieme con le mutazioni del lessico che la designa: memori ancora del Corydon di André Gide (quel libro scandaloso data 1911), Duvert prima era stato annesso alla «pederastia»; poi, letto fra gli interlocutori dell’epoca sua (uomini che in realtà detestava, ignorava, non solo Barthes ma anche Gilles Deleuze e Félix Guattari, i firmatari dell’Anti-Edipo, 1972), egli era stato ascritto come un greco redivivo alla «paidofilia»; infine, per i posteri immediati, Duvert era senz’altro il sinonimo della aberrazione che va sotto il nome di «pedofilia». Né c’è oggi un altro termine per indicare il contenuto dei rari titoli che, per esempio, resistono in italiano: da tempo irreperibile Recidiva (Pratiche 1976), essi si riducono al libello L’infanzia al maschile (versione di Giancarlo Pavanello, ES 1996) e ai romanzi Diario di un innocente (nella splendida traduzione del compianto Angelo Morino, La Rosa 1981, poi ES 1996) e L’isola atlantica (’79), il capolavoro già annunciato da Einaudi nel ’93 ma, forse per sopravvenuti timori riguardo alla ricezione, uscito solamente nel 2000 da Casagrande di Bellinzona a cura di chi scrive.
Comunque lo sguardo di Duvert non è affatto associabile a quello di Gide e nemmeno di Genet, perché in lui non c’è mai alone suggestivo né la tensione di un desiderio confuso, torbido o ancora da smaltire. Semmai la sua dialettica è la stessa di un Sade, perché la continua apologia e la reiterazione di un impulso tanto arrischiato, cioè l’amore per il corpo di ragazzi anche impuberi, viene di continuo straniata, oggettivata, virtualmente metabolizzata. In altri termini, Duvert non residua sulla pagina la sua libido in atto (troppo stilizzato, cartesiano, è il suo passo così come lavorata al millimetro la lingua), ma piuttosto vi fa esplodere la personale nostalgia di una pienezza, di una libertà, di una plasticità psicofisica di cui il corpo dei ragazzi è un emblema tanto più trionfale quanto più, di fatto, inviolabile. Duvert, in questo, non è meno paradossalmente platonico di un Sade o, per altra via, del nostro Sandro Penna.
Si tratta finalmente di leggerlo al di là degli automatismi della esecrazione o della preventiva rimozione e dunque è benvenuto Retour à Duvert (Le dilettante, Parigi, pp. 284, euro 21,00), la biografia che Gilles Sebhan gli dedica duplicando l’omaggio romanzato che si intitolava Tony Duvert, l’enfant silencieux (Denoel 2010). Pochi i testimoni superstiti, e per lo più diffidenti o reticenti, scarse le tracce lasciate da uno scrittore che non amava comparire e odiava il telefono, rarissimi i suoi corrispondenti (pure se destinatari di lettere talora stupende per la veemenza stylé del dettato), Sebhan allestisce la sua biografia inseguendo la mozione profonda di Duvert e dunque il nesso che lega la totale sovraesposizione sulla pagina alla fissità di uno sguardo glaciale, remoto da essa senza essere cinico, partecipe senza essere mai complice. Merito di Sebhan è sfrondare l’aneddotica dell’autore maledetto e produrre viceversa documenti come la lettera in cui lo scrittore nemmeno ventenne, alle prese con il primo getto di Recidiva, confessa a un’ex compagna di liceo: «Scrive Genet (pressappoco): Molta gente pensa, ma non ne ha il diritto. (…) Io non amo affatto decodificare né comprendere, io non credo a nessun ‘a priori’. Morale, linguaggio, è del sangue, marcio, da lasciar colare, come quello di un ascesso, fin tanto che non viene rosso, alla fine. Ciò vuol dire che c’è una urgenza di vita che precede la riflessione, e che dà il diritto di riflettere. Dà soprattutto la voglia di essere pazienti, un sospetto altrimenti più feroce del dubbio, un certo talento per vivere senza preconcetti, una impazienza di scontrarsi, di spezzarsi: il pensiero nasce solamente da un uomo distrutto. Soltanto, per distruggersi, ci sono questi due gusci, due corazze, due stecche da aprire: morale, linguaggio. Una volta a nudo, è fatta».
Qual è allora la nudità di Tony Duvert? Cosa gli ha dato, secondo la formulazione di Genet, il diritto di pensare e di prendere la parola? Che cosa legittima il suo sguardo, fosse pure diretto alle pratiche più intollerabili, le più immonde ai nostri occhi? E qui appunto non inganni il suo stile levigato, elegante pure nel parlato, le frasi scandite che filano in sequenze di apocopi e di versi giambici (impossibili o quasi da rendere nel polisillabato italiano). Chiunque abbia letto L’isola atlantica, romanzo polifonico, sfrenato e castissimo inno all’inventiva impubere, infatti sa che su di esso incombe l’ipoteca proprietaria delle Madri, il maternage eretto a sistema di esproprio sociale e relativa appropriazione individuale. Vale a dire si erge il familismo bigotto e/o progressista quale intangibile credo monotesistico, lo stesso che Duvert ha altrove definito «eterocrazia». L’a priori di Duvert, la messa a nudo di morale e linguaggio liberati dal guscio della loro presunta normalità, il suo stesso distruggersi o via via cancellarsi per potersi permettere di farlo, non è nel contenuto dei romanzi ma nella radicalità di quel gesto primordiale. Che è un gesto critico, nella sua piena accezione. Questo è quanto non gli viene ipocritamente perdonato e che l’industria culturale (pur riciclando ogni giorno immondizia, le peggiori schifezze) non riesce tuttavia a neutralizzare. Ed è per questo, dopo tutto, che è necessario leggere Duvert.