La guerra alla droga nelle Filippine d’ora in avanti avrà come unico obiettivo la caccia ai «pesci grossi» e ai loro protettori politici, diminuendo drasticamente la presenza sul territorio delle task force antidroga in forze alla polizia di stato.

Lo ha annunciato il presidente filippino Rodrigo Duterte in un discorso trasmesso ieri dalle reti nazionali. Duterte, leggendo stralci di una circolare presidenziale indirizzata ai vertici dei principali corpi di polizia, esercito e intelligence del paese, ha spiegato che la Philippine Drug Enforcement Agency (Pdea, l’agenzia antidroga nazionale) porterà avanti «come unica agenzia» la guerra alla droga nelle Filippine, mentre la Philippine National Police (Pnp, la polizia di stato) continuerà semplicemente a garantire la propria «visibilità» per le strade, in funzione deterrente.

La Pdea, coi suoi 1.800 agenti a disposizione, sarà l’unica agenzia legittimata a condurre «operazioni antidroga contro chiunque, direttamente o indirettamente, e in qualsiasi capacità, sia coinvolto o legato alle droghe illegali»; gli agenti della Pnp, 160mila unità, sono chiamati dunque a fare un passo indietro.

Nel suo discorso, Duterte ha dichiarato: «Non sono più interessato a utilizzare nessun’altra agenzia, solo la Pdea. Lo vogliono loro, lo voglio io che ho l’ultima parola, magari questo sarà sufficiente per quegli stupidi dell’Unione Europea. Loro si concentravano solo sul numero dei morti».

Secondo le cifre diramate dalla Pnp, dall’inizio della campagna antidroga di Duterte – luglio 2016 – la polizia nazionale è stata responsabile di oltre 3.900 omicidi di piccoli spacciatori o consumatori rastrellati nelle periferie che, secondo le autorità, «avevano resistito all’arresto»: dettaglio che automaticamente dovrebbe scagionare gli agenti dalle accuse di omicidi extragiudiziali che, da mesi, arrivano sia dalle opposizioni nazionali sia dalla comunità internazionale e dalle organizzazioni non governative.

Ai morti ufficialmente per mano della polizia si aggiungono altre migliaia di esecuzioni effettuate da non meglio specificati «vigilantes», portando la stima delle vittime della guerra alla droga a 13mila persone in poco più di un anno.

Distanziando la Pnp dalla guerra alla droga, Duterte conta di raggiungere due obiettivi: dare il contentino alla comunità internazionale, preoccupata per la violenza diffusa nelle Filippine e sobillata dallo stesso presidente, e contenere l’erosione dei consensi registrata dagli ultimi sondaggi.

Una tendenza che gli osservatori imputano sia alla gestione discutibile della crisi di Marawi, con poche decine di terroristi islamici ispirati dall’Isis circondati da un assedio militare che dura da più di cinque mesi, sia da una serie di omicidi extragiudiziali che hanno scosso l’opinione pubblica, facendo traballare la fiducia nel pugno di ferro del presidente.

Uno su tutti, l’assassinio di Kian delos Santos il 16 agosto scorso a Caloocan, uno dei 16 agglomerati urbani che formano la città metropolitana di Manila. Secondo le prime ricostruzioni offerte dalla polizia, Kian delos Santos – studente di 17 anni – avrebbe aperto il fuoco per primo contro le forze dell’ordine, finendo ucciso nella sparatoria.

Una versione totalmente sbugiardata dalle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso, finite su tutti i media nazionali, che mostrano tre agenti trascinare Kian disarmato in un vicolo, dove sarebbe stato «giustiziato».

I genitori e gli amici di Kian hanno a più riprese dichiarato che il giovane non aveva nulla a che fare con le droghe, scatenando una serie di proteste in tutto il paese contro l’impunità garantita agli agenti responsabili dell’omicidio.

Senza entrare nel merito delle – a onor del vero, deboli – polemiche nazionali, durante il suo discorso televisivo Duterte ha preso di mira «l’Occidente» lasciando intendere, secondo Reuters, che da ambienti dell’Ue sia arrivato un monito pesante: se le cose vanno avanti così, le Filippine rischiano di uscire dalle Nazioni Unite.

Uno scenario che, evidentemente, ha mandato su tutte le furie il presidente filippino: «Noi fuori dall’Onu? Figli di puttana! Fatelo. Interferite nei nostri affari solo perché siamo poveri. Ci mettete i soldi e poi iniziate a orchestrare cosa deve esser fatto e cosa no», ha detto Duterte, aggiungendo che il paese si è ormai messo alle spalle «il periodo coloniale» e che la comunità internazionale farebbe meglio a «non romperci i coglioni».