C’è sempre un momento in cui la sconfitta deve essere presentata come una cosa diversa, un passo indietro travestito da passo di lato, o persino in avanti. Per Matteo Salvini quel momento è arrivato ieri, a Rimini al meeting di Cl, il giorno dopo l’incontro di mezz’ora con Draghi a palazzo Chigi che aveva reso prevedibile questo esito. Claudio Durigon, il sottosegretario pontino all’economia cresciuto di importanza nella Lega di Salvini ma rimasto un corpo estraneo nel cuore nordista del partito, dovrà accomodarsi fuori dal governo. Le sue frasi sul parco (Arnaldo) Mussolini da restaurare a Latina a spese della dedica a Falcone e Borsellino, e soprattutto l’insistenza con cui Pd, M5S e Leu hanno chiesto le sue dimissioni nel corso di un altrimenti distratto agosto, non possono restare senza conseguenze. A Salvini l’onore di annunciarle: «Ragioneremo io e Claudio su cosa è più utile fare per lui, per il movimento, per il governo e per l’Italia».

L’ordine delle priorità può apparire stravagante, ma serve a preparare il terreno con il sottosegretario al quale si vuole evitare l’onta della rimozione. Può dimettersi e l’esito è immaginabile dalle ripetute attestazioni di stima di Salvini al «papà di quota 100», Durigon appunto, «persona della quale ho la massima fiducia, con lui stiamo ragionando della riforma delle pensioni e della rottamazione delle cartelle esattoriali». Alle viste una promozione nelle gerarchie interne secondo il modello Armando Siri, rimosso da sottosegretario nel primo governo Conte e spostato a dirigere i dipartimenti della Lega (dove adesso Durigon si occuperebbe di lavoro). Anche avesse conservato il posto, del resto, Durigon sa che non sarebbe più stato spendibile come candidato del centrodestra per la regione Lazio nel 2023, come gli era stato promesso da tempo.

A evocare il precedente Siri ieri a Rimini è stato proprio Giuseppe Conte, che ha ricordato come fu lui da presidente del Consiglio a deciderne la rimozione (per la cronaca, dopo avergli chiesto invano le dimissioni e quando era già programmato il voto di mozione di sfiducia a tutto il governo). Conte ha anche invitato, soprattutto i suoi, a lasciar fare a Draghi. «Sono assolutamente fiducioso che si possa risolvere e credo che il premier sia assolutamente sensibile, per come lo conosco, su questo punto», ha detto. Segno che pure all’avvocato è arrivata la notizia di un Durigon in uscita. A incalzare c’è anche Enrico Letta, per il quale «l’apologia di fascismo è incompatibile con la nostra Costituzione e con questo governo. Credo che questa faccenda debba essere risolta».

Il segretario del Pd si è unito alla vasta compagnia che ha raggiunto Rimini per un dibattito sui partiti, oltre ai già citati c’erano anche Rosato di Iv, Tajani di Fi, Lupi che da Cl è a casa e Meloni in videochat. Argomenti vari, Conte è apparso quello meno a suo agio, anche per l’arrivo in ritardo . «È una prima volta per il Movimento qui», dice. Ma no, c’è stato e c’è tornato Di Maio, gli fanno notare.

Letta insiste sulla «democrazia malata» e la sua proposta di curarla con una modifica dei regolamenti che limiti gli spostamenti dei parlamentari da un gruppo a un altro. Ripete poi che vanno abolite le liste bloccate dalla legge elettorale – per farlo però bisognerà pur cominciare a lavorare alla nuova legge, cosa che il Pd come tutti gli altri rimanda accuratamente da molti mesi. Gli andrebbe bene anche l’uninominale dappertutto, dice, ma senza paracadute «come sto facendo io che mi sono candidato a Siena», spiega. È anche vero che non poteva fare altrimenti, perché si tratta di elezioni suppletive che non prevedono alcun recupero proporzionale.

Conte, chiamato a parlare dei partiti in generale, fa l’elogio del Movimento che, nella nuova versione, mette al bando «il linguaggio aggressivo». Aggiunge che avrà una forma di «organizzazione light», grazie al digitale, «non devono esserci per forza sedi fisiche». Tutti (tranne Letta) lo criticano per questo. «I partiti esistono solo se sono pesanti», dice Meloni, che sul territorio in effetti non manca di rappresentanti pesanti e non di rado imbarazzanti.
Sul finale Letta infila un annuncio, «il Pd chiederà a Draghi di restare alla guida del governo almeno fino al 2023», che è un modo per ricordare a tutti che passati meeting e feste varie ci aspetta la partita per il Quirinale. Manca poco.