Quando il 6 aprile 1528 Albrecht Dürer morì nella sua Norimberga non lasciò nulla al caso. Nello studio centinaia di disegni e incisioni erano raccolti e schedati meticolosamente, pronti per essere gestiti dalla moglie Agnes Frey, donna spigolosa che era stata a fianco dell’artista per tutta la vita senza riuscire a dargli un erede. Così, intorno al 1550 una parte consistente di quel patrimonio venne acquisito «a pacchetto» da un commerciante della città, Willibald Imhoff. Quello stesso patrimonio, poi, passò compatto nelle collezioni di Rodolfo II a Praga, per arrivare a Vienna alla corte degli Asburgo ed entrare infine, nel 1796, all’Albertina, per volontà del suo fondatore Alberto di Sassonia. La premessa è necessaria per capire come sia possibile realizzare una mostra come quella che l’Albertina propone (fino al 6 gennaio), dedicata proprio al cantiere di lavoro di Albrecht Dürer: sono esposti 100 dei 140 tra disegni e acquarelli delle raccolte, insieme a decine di prestiti arrivati da grandi istituzioni di tutto il mondo.
Il valore della mostra è di offrirsi come un’esplorazione puntigliosa dei meccanismi di produzione artistica che hanno caratterizzato la bottega del più grande e «globale» maestro del Rinascimento tedesco. Fin dai primi passi il percorso di Dürer si rivela impostato con decisione: a un’incisione a bulino con un Autoritratto del padre orafo, Albrecht risponde con un Autoritratto a punta d’argento fatto a 13 anni. Il ragazzino ha già un aspetto saldamente consapevole e con il dito puntato sembra indicare il percorso a cui mira. Un percorso che non coincide con la professione del padre, anche se dall’arte orafa egli incassa quella vocazione a mirare al dettaglio più infinitesimale.
Trascorrono dieci anni ed ecco comparire Agnes, anzi «mein Agnes» come l’artista scrive su un foglio, questa volta disegnato a inchiostro: è il 1494, anno del matrimonio, per altro combinato dal padre durante l’assenza di Dürer per apprendistato presso Martin Schongauer a Colmar. È una moglie ragazzina e colpisce l’immediata intimità del rapporto, anche se il sodalizio prenderà poi un connotato più imprenditoriale che affettivo. Già nel 1495 Albrecht fa esordire il celebre monogramma «AD», vero marchio di fabbrica con il quale tenta di proteggere le sue invenzioni.
È un Dürer sistematico, concentrato nell’operatività, quello messo in scena con questa mostra. Nelle premesse Christof Metzger, curatore dell’Albertina, chiarisce di aver voluto tenersi fuori dalla celebre lettura panofskyana di Dürer, che assegnava una centralità al motivo della malinconia. Infatti qui si insiste coerentemente sull’indagine del modus operandi dell’artista, quasi a voler dimostrare come l’organizzazione del lavoro, macchina sempre perfettamente a regime, fosse speculare alla sua organizzazione mentale.
L’eccezionale ricchezza dei materiali esposti certamente rende agevole e convincente questo approccio, nella doppia direzione in entrata e in uscita. In entrata quando vediamo Dürer applicarsi allo studio dei modelli altrui, come nel caso delle due celebri incisioni di Mantegna, Il Baccanale con sileno e la Zuffa di dei marini. In mostra sono esposti fianco a fianco i prototipi e le repliche a disegno, realizzate nel 1494 in occasione del primo viaggio italiano. Dürer assimila il modello con fedeltà quasi scolastica, ma stempera inevitabilmente il segno arcigno e implacabile di Mantegna: la romanità per lui non è un’ossessione, ma una delle tante opzioni nel ventaglio della sua produzione. Certamente di Mantegna gli interessa anche altro: cioè il suo modello produttivo di diffusione e moltiplicazione delle opere attraverso le incisioni.
Il metodo Dürer emerge con chiarezza nella sala che raccoglie i suoi studi di natura. La Zolla d’erba o il Ramo di Iris, nella loro iconicità iperrealista, lasciano con il fiato sospeso. Precisione orafa e visionarietà si tengono insieme in questi studi, che per Dürer funzionavano come fogli di presentazione del proprio lavoro ai committenti. Sono tessere di mondo naturale con una loro autonomia, dotate di troppa energia per immaginarli come studi per composizioni più complesse. I meravigliosi Iris (1503), realizzati ad acquarello, tutti in verticale, incollando tre fogli uno sopra l’altro, li ritroviamo usati nella grande tavola della Madonna della Rosa proveniente dalla National Gallery di Londra. Qui l’opera viene riferita ad Hans Baldung Grien, e il motivo degli iris preso pari pari dal modello di Dürer, nel complesso dell’opera sembra un po’ estraneo e fuori parametro per una sua costitutiva irriducibilità a entrare in un contesto. Del resto nella stessa sala l’iconico Leprotto (1502), da sempre simbolo dell’Albertina (e in questa occasione gadgettizzato attraverso una scultura-multiplo a grandezza naturale firmata da Ottmar Hörl), sconcerta per quel senso di vuoto pneumatico che lo circonda. La bestiolina abita il foglio bianco con quella sua posa in diagonale e l’ombra leggera proiettata sulla sua sinistra. L’approccio di Dürer non è quello del naturalista, semmai prelude allo sguardo di ghiaccio della Nuova Oggettività. L’oggetto rappresentato è solo uno straordinario pretesto per mettere a verifica la propria capacità di controllo del reale. Nell’occhietto del coniglio vediamo specchiarsi l’unico dato d’ambiente di questo capolavoro, così popolare e insieme così straniante: è la luce di una finestra, che è facile immaginare fosse quella dello studio dell’artista.
Quando Dürer arriva a Venezia in occasione del suo secondo viaggio italiano del 1506 si avverte però un mutamento di problematica interna al suo laboratorio. Esso riguarda proprio la funzione degli studi che da questa data in poi sono per la gran parte preparatorî per opere dipinte di grande ambizione. In mostra vengono ricostituiti alcuni insiemi, in particolare quello riguardante il cantiere per il Gesù tra i dottori (1506), della collezione Thyssen.
I meravigliosi disegni preparatorî sono realizzati sulla celebre carta azzurra veneziana, che Dürer stesso si faceva da sé non fidandosi delle partite che gli venivano vendute, in cui a volte l’indaco veniva mischiato e usato per mascherare difetti della carta. Ancora una volta Dürer mette in campo questi suoi approcci controllatissimi al reale, in particolare nella sequenza degli studi per le mani gesticolanti del quadro finale. È una capacità di controllo di una tale intensità da creare problemi di tenuta nel momento in cui dagli studi si passa all’opera stessa: non a caso il cantiere del quadro si rivelerà tormentato. E per quanto Dürer abbia tentato di zittire le malelingue scrivendo sul foglietto che sporge dal libro «opus quinque dierum» (lavoro di cinque giorni), una volta tornato a Norimberga lo metterà nelle mani di Baldung Grien per portarlo, con mestiere, a compimento.
È una situazione che si ripete anche di fronte ad altre due opere celebri messe in mostra con tanto di studi preparatorî: l’Adorazione dei Pastori (1504) degli Uffizi e la Madonna del Rosario (1506) dalla Narodni Gallery di Praga. Anche in questi casi la complessità della macchina compositiva rivela un affanno rispetto all’esattezza esecutiva e mentale degli studi preparatorî. La pittura si fa paradossalmente liquida, rispetto alla sicurezza ferrea dei disegni. In sostanza il risultato della mostra viennese finisce con l’essere una conferma della assoluta centralità, in Dürer, di quello straordinario patrimonio custodito nei propri forzieri.