Per l’ex presidente Álvaro Uribe, il politico più potente e l’uomo più amato e più odiato della Colombia, non è sicuramente un momento fortunato. Dopo la storica decisione della Corte suprema di ordinare la sua custodia domiciliare con l’accusa di corruzione e frode, il mentore politico dell’attuale presidente Iván Duque è anche risultato positivo al Covid-19, benché le sue condizioni di salute risultino «ottime».

INTORNO A LUI, IL PAESE è spaccato tra chi è in festa e chi è in lutto. La sua carcerazione preventiva, disposta dalla Corte nell’ambito del processo in cui è accusato di aver corrotto testimoni perché ritrattassero le dichiarazioni sui suoi legami con il gruppo paramilitare Bloque Metro, sta provocando in Colombia un terremoto politico.

Ed è paradossale che a causarlo sia stato in fondo proprio lui, con la sua denuncia nel 2014 contro il senatore progressista Iván Cepeda, accusato di fabbricare false testimonianze sul suo coinvolgimento con il paramilitarismo. Gli è andata malissimo: la Corte suprema non solo ha scagionato Cepeda, ma ha anche disposto l’apertura di un’indagine, tuttora in corso, contro l’accusatore che avrebbe, lui sì, tentato di corrompere i testimoni. Fino alla decisione di martedì scorso di ordinare la custodia domiciliare per il rischio di intralcio alla giustizia.

Immediatamente dopo l’annuncio, gruppi di sostenitori e di oppositori dell’ex presidente e oggi senatore (il più votato della storia della repubblica), sono scesi in strada nelle principali città per manifestare a favore e contro. E in difesa del suo mentore è sceso in campo lo stesso Duque, spingendosi addirittura ad auspicare una riforma della giustizia.

Si è fatta sentire anche la classe imprenditoriale, contestando la misura «sproporzionata e ingiusta» della Corte – mai nessun presidente era stato privato della libertà – e riesumando il sempre utile spettro del castrochavismo, già evocato con successo nell’ultima campagna elettorale.

SONO PIOVUTE ANCHE, da parte delle diverse organizzazioni imprenditoriali, dichiarazioni oltremodo indignate, mirate a esaltare l’«inestimabile servizio» al paese dell’ex presidente – sul cui capo pesano una sessantina di procedimenti giudiziari, dall’omicidio alla compravendita di voti – e confrontando la sua custodia domiciliare con l’occupazione di seggi parlamentari da parte di ex combattenti delle Farc. Quei combattenti su cui Uribe ha costruito la sua fortuna politica, spendendosi a favore della necessità di porre fine alla guerra attraverso l’annientamento militare della guerriglia.

Una linea portata avanti con pugno di ferro sulla base della cosiddetta dottrina della sicurezza democratica, a cui si deve, tra l’altro, lo scandalo dei falsi positivi: centinaia di esecuzioni da parte dell’esercito di civili innocenti fatti passare per guerriglieri uccisi in combattimento.

LA STESSA LINEA che ha continuato a sostenere attraverso la sua feroce opposizione al processo di pace e i suoi ripetuti attacchi alla Missione di verifica delle Nazioni unite in Colombia, colpevole di denunciare la mancata applicazione degli accordi e la vulnerabilità degli ex guerriglieri alla violenza dei gruppi armati illegali.

Che tutto ciò possa ora cambiare è la speranza dei tanti che oggi festeggiano la decisione della Corte, guardando con maggiore ottimismo a una possibile svolta nel processo di democratizzazione del paese.