Parte decisamente in salita il dialogo tra il governo e le forze popolari mobilitate dallo scorso 21 novembre contro il pacchetto di misure varato dal presidente Iván Duque. Confidando nella possibilità che, con le feste natalizie, la più grande protesta registrata nel paese in molti decenni perda di intensità, Duque sta prendendo tempo, parlando di dialogo, ma offrendo monologhi.

Ma i manifestanti non ci stanno a essere presi in giro e dopo aver detto no a una «conversazione nazionale» allargata ad altri settori sociali – quelli che con il governo conversano di continuo – hanno proposto l’avvio di un dialogo diretto tra delegati governativi e rappresentanti dei movimenti a partire da 13 punti, senza però riuscire a scalfire la sordità presidenziale. «Il governo si rifiuta di negoziare. Non ascolta. Fondamentalmente, vuole un comitato che si limiti ad applaudire», ha spiegato la Fecode, la Federación Colombiana de Trabajadores de la Educación.

Alla riunione con la delegazione governativa, il 3 dicembre, i rappresentanti del Comité del paro (un «comitato dello sciopero» in cui sono presenti le principali organizzazioni popolari) erano arrivati con tre richieste: il ritiro dell’Esmad (lo Squadrone mobile antisommossa della polizia colombiana noto per le sue pratiche repressive) dalle mobilitazioni, l’accesso a uno spazio televisivo per spiegare i motivi della protesta e un dialogo ampio e diretto con le basi popolari. Nessuna delle richieste è stata accolta.

E se, malgrado il pessimo inizio, le parti hanno deciso di incontrarsi nuovamente l’11 dicembre, fino ad allora, ha annunciato la Fecode, «continueremo a scendere in strada». Dopo le giornate di sciopero nazionale del 21 e del 27 novembre e del 4 dicembre, dopo i cacerolazos, le attività culturali e le fiaccolate, si svolgerà oggi, in quattro diversi punti della capitale, il grande concerto «Un canto per la Colombia» in cui più di 40 artisti ricorderanno le ragioni della protesta.

E altre mobilitazioni sono previste per la prossima settimana, a cominciare dalla «presa di Bogotà» a base di cacerolazos nel giorno in cui il Congresso voterà la riforma tributaria proposta da Duque. Ma, al di là del rifiuto del «piano di sviluppo» governativo, la lista delle richieste include molti altri punti, dalla dissoluzione dell’Esmad all’adozione di reali misure per fermare la strage di leader sociali ed ex combattenti (proseguita anche nei giorni delle proteste), dall’applicazione dell’accordo di pace tra governo e Farc alla ripresa dei negoziati con l’Ejército de Liberación Nacional, dall’accesso universale a educazione e salute ad azioni immediate contro cambiamento climatico, deforestazione e estrattivismo.

Un insieme di rivendicazioni che riflette la pluralità dei soggetti attivi nelle proteste, tra cui centrali operaie, organizzazioni contadine, indigene e ambientaliste, associazioni studentesche, collettivi femministi (con il loro ormai immancabile canto-coreografia Un violador en tu camino), gruppi di vittime della guerra civile, forze politiche come la Farc (il partito della ex guerriglia) e persino il tifo calcistico organizzato.

E a fianco dei manifestanti si schiera anche la maggioranza della popolazione, malgrado gli sforzi profusi dai mezzi di comunicazione per metterli in cattiva luce: secondo un sondaggio del Centro nazionale di consulenza, il 55% dei colombiani è a favore delle proteste in corso. Nella storia recente della Colombia non era mai accaduto.