Duncant Grant, “Self-Portrait in Hat”, 1909 ca

 

La definizione migliore del gruppo di Bloomsbury fu quella di «mutual admiration group» che gli diedero alcuni critici degli anni cinquanta. Il poeta Stephen Spender li paragonò ai narratori del Decamerone: chiusi nelle loro case a parlare incessantemente. Desmond MacCarthy, lui stesso membro del gruppo, descrisse nel 1933 l’idea che l’opinione pubblica si stava allora facendo di quegli individui, connotati da «una arrogante esclusività, un intellettualismo anti branco e una frivola superiorità morale».
La vera leggenda, comunque, nacque solo quando la loro complicata vita erotica venne resa pubblica. Gli inglesi, con estrema praticità, hanno compilato dei grafici per spiegare gli intrecci sentimentali di Bloomsbury. Il più efficace ha delle linee in tre colori diversi che legano i vari nomi a seconda si tratti di unioni matrimoniali, relazioni etero o omosessuali. Il risultato assomiglia vagamente alla cartina della metropolitana di Londra e lo snodo più trafficato è senza dubbio quello che corrisponde a Duncan Grant (1885-1978).
Di origini scozzesi, era il cugino povero di Lytton Strachey – povero ma bello, brillante e pieno di fantasia, con una naturale predisposizione per l’arte, che sua zia, la formidabile suffragetta Lady Strachey, incoraggiò e finanziò. Studiò con Simon Bussy, marito di sua cugina Dorothy (autrice di una pionieristica novella lesbica), poi andò a Parigi per frequentare l’accademia di Jacques-Émile Blanche, e fu allora che fece conoscenza con Virginia Stephen, non ancora Woolf, che aveva raggiunto sua sorella Vanessa in viaggio di nozze con Clive Bell. La rivide ancora a Londra attraverso Lytton Strachey, e da quel momento in poi la sua vita si legò al gruppo dove fungeva, fra la delizia di tutti, da gentile folletto e da amante disinvolto – prima di Strachey, poi del futuro grande economista John Maynard Keynes, in seguito del fratello di Strachey, James, traduttore di Freud, quindi del fratello minore di Virginia e Vanessa, Adrian.
Il primo vero successo pittorico di Grant, Lemon Gatherers, esposto al Friday Club della Alpine Gallery, data al 1910, lo stesso anno in cui un altro personaggio entra a far parte della consorteria, Roger Fry. Critico, pubblicista e pittore lui stesso, più anziano degli altri appartenenti al gruppo, Fry apriva proprio nel ’10, alle Grafton Galleries, l’esposizione Manet and the Post-Impressionists. E Londra vide per la prima volta in una mostra pubblica Van Gogh, Gauguin, Cézanne, Matisse e altri sconosciuti di rango: le critiche più indulgenti usarono il termine pornografia. Due anni dopo, quando Fry replicò con una seconda esposizione, la reazione del pubblico fu perlopiù ilare. Vanessa elesse Fry a suo amante en titre e si lanciò in tele quasi cubiste; Duncan sperimentò di tutto.
Nel 1911 Fry propose Grant per la decorazione di un ambiente nel Borough Polytechnic, e le sue due grandi tele, il Nuoto e il Calcio, suscitarono qualche perplessità. L’atleta nudo che in sette pose diverse si tuffa e raggiunge una barca aveva ancora un sapore ostico per il palato britannico. In Grant l’influsso dei francesi si mescolava in tutti i modi possibili e la sua versatilità venne presa talvolta per opportunismo – da Matisse ai Fauves, da Denis a Cézanne, fino all’arte africana e ai Balletti Russi, l’occhio del pittore digeriva e rielaborava con intelligenza e originalità. A coda della esposizione post-impressionista del 1912 presentò The Queen of Sheba in puro stile pointilliste e con un soggetto narrativo che piacque immensamente ai conterranei. Lo ammirarono come si ammira l’illustrazione di una favola: se avessero saputo che per le sembianze della regina Grant si era ispirato a quelle dell’amato Strachey forse non si sarebbero entusiasmati tanto! Si guadagnò perfino l’elogio di uno dei più ferrei detrattori del gruppo di Bloomsbury, D.H. Lawrence, che nel 1915 scrisse: «Grant sta cercando di stabilire l’Assoluto, come fra Angelico nel Giudizio Universale, una visione dell’esistenza dell’uomo».
La storia della relazione di Duncan con Vanessa Bell, della convivenza a Charleston e di come misero al mondo una creatura, Angelica (a cui fu fatto credere a lungo di essere figlia del legittimo marito di Vanessa), è stata rivangata molte volte. Ma quel che ancora incanta è l’assoluta fiducia reciproca nel lavorare fianco a fianco pur mantenendo la propria individualità. L’intesa raggiunse l’apice con gli Omega Workshops, inventato nel 1913 da Fry come laboratorio dove produrre mobili, tessuti, vestiti e intere decorazioni d’interni, nel genere delle Wiener Werkstätte e del più sofisticato Atelier Martine fondato a Parigi da Paul Poiret. Ma le officine di Fry non avevano né la nitida visione progettuale dei viennesi né la raffinatezza esecutiva del grande sarto parigino. Da Omega sortirono bei tessuti squillanti, mobili cosparsi di ogni specie di ornamento pittorico, stilizzato o naturalistico, tappeti e ceramiche. Sono opere che mirano all’effetto artistico delle superfici e non hanno grande respiro nelle forme, ma vengono ancora idolatrate come testimonianza di un momento cruciale della cultura britannica.
Chiusa l’esperienza Omega nel 1920, Vanessa e Duncan continuarono a dipingere e a viaggiare insieme. In quello stesso anno sono a Roma, all’Hotel de Russie, e affittano uno studio a via Margutta. Poi a Firenze, a «I Tatti», dove irritano Bernard Berenson. Le commissioni più proficue sono ancora quelle che li vedono come decoratori di interni per una clientela scelta di amici e aristocratici. Per Kenneth Clark dipinsero un servizio di piatti con le effigi di donne famose (ma Duncan vi aggiunse la propria immagine); per Dorothy Wellesley decorarono la stanza da pranzo nella casa di campagna nel 1930. La dama aveva dato scandalo anni prima lasciando il marito, futuro Duca di Wellington, e i figli per scappare con Vita Sackville-West. Era una poetessa apprezzata da molti (ma non da tutti) e per lei Bell e Grant si produssero in uno stile decorativo adatto ai nuovi tempi: cromie smorzate di fondo per far risaltare in nicchie illusorie una maestosa rievocazione classicista con una toletta di Venere, baccanali e altre figure, nude e voluminose.
Stesso gusto seguiva la decorazione richiesta loro nel 1935 per alcuni degli ambienti della nuovissima stella della flotta britannica, la Queen Mary. A Vanessa fu affidato un ambiente accanto alla cappella cattolica: il clero informato della scelta le fece rescindere il contratto. Duncan riuscì a piazzare le sue tre tele in una delle sale più grandi: furono staccate dal direttore della Cunard Line il giorno dopo, mentre la moglie, presente alla scena, indignata gridava «cerbiatti ci volevano, gazzelle…». Ebbero maggior fortuna nel sacro quando realizzarono nel 1941 quello che forse è il loro capolavoro congiunto, una piccola chiesa a Berwick, nell’East Sussex, dove si dispiega un racconto lirico di un naturalismo purista che guardava agli antichi maestri italiani del Rinascimento.
E così proseguì, in nature morte e soprattutto nei ritratti (che erano sempre stati le loro cose migliori: ma, si sa, gli inglesi sono biografi per eccellenza e lo diventano anche sulle tele), fino alla morte di lei nel 1961. Ad accudire Duncan rimasero la figlia Angelica (che nel frattempo era stata informata sulla paternità e aveva sposato l’antico amante del padre, David Garnett) e il poeta Paul Roche, amore della tarda età di Duncan e soggetto dei suoi nudi maschili più luminosi.
I legati di Duncan Grant non furono solo artistici: era stato lui, insieme a Fry, a interessare Keynes quando, nel 1918, si stava per vendere parte della collezione di Degas. L’economista persuase il governo britannico ancora in guerra a stanziare un fondo per alcuni acquisti e si recò lui stesso con il direttore della National Gallery a Parigi, dove risuonavano a distanza i colpi di artiglieria. Tornarono trionfanti e oggi il principale museo britannico conserva ancora un Manet, un Corot, un Ingres, un Gauguin, un Delacroix appartenuti a Degas. Per sé Keynes comprò un piccolo magnifico Cézanne, che il direttore non era riuscito a capire.