Dicono che la voce di Mattia Battistini innamorasse di sé le corti d’Europa e che l’arte con la quale Alessandro Bonci cesellava le note facesse piangere i teatri. Ma, forse perché registrate al crepuscolo della carriera, forse per i limiti tecnici degli strumenti di allora, queste voci hanno per noi qualcosa di azzimato e di zuccherino. Non so se sia l’aura ad andare perduta nelle riproduzioni meccaniche, come voleva il filosofo tedesco, certo è che anche dalle non molte testimonianze di questo genere poco emerge delle ragioni del mito di Isadora Duncan. Le sculture, i disegni, le ceramiche, i quadri ispirati dalla sua danza sembrano averne, invece, conservato l’essenza meglio delle poche riprese e delle fotografie sopravvissute.
In questa direzione si sono mossi i curatori della mostra Danzare la Rivoluzione. Isadora Duncan e le arti figurative in Italia tra Ottocento e avanguardia nel raccogliere nelle sale del Mart di Rovereto tutti quegli elementi che permettono di collocarne l’arte nelle cultura della sua epoca, alla quale ella appartenne da comprimaria, accanto agli scrittori e agli artisti ai quali si legò. Donna colta, leggeva i tragici antichi, D’Annunzio, Ibsen, Nietzsche, Darwin. In Italia memorizzò i capolavori del Rinascimento attraverso il filtro estetizzante di Walter Pater. Viaggiò per l’Europa, conobbe molti artisti e ne venne influenzata. Anche se da nessuno forse più di Rodin. Come l’artista francese volle scolpire l’anima così la Duncan cercò di farla danzare. Nel gesto scultoreo dell’uno, come nel movimento dell’altra è l’anima a essere sulla punta delle dita. I poeti simbolisti credettero nell’eloquenza del gesto, quasi che in esso potesse quintessenziarsi una condizione spirituale. «Nei drammi di Maeterlinck e di D’Annunzio i gesti contano quanto e più delle parole» notava Mario Praz; le sculture di Rodin ne sono egualmente piene, con qualche cosa di magniloquente che richiamava il teatro coevo (e in effetti la posa di La Douleur venne suggerita allo scultore dalla Duse).
La Duncan partecipò di questo gusto. In La Pleureuse (1911) Libero Andreotti la ritrae nell’enfasi del gesto: chiusa e assorta, con le mani protese a reggere la lunga veste di bronzo è un’acquasantiera di lagrime. Anche Romano Romanelli fu sensibile alle ipnotiche movenze della danzatrice che scolpì nel bronzo (1913) col collo flessuosamente riverso, come rapita fuor di sé. La Duncan «non improvvisava, come si è a lungo ritenuto». – scrive Patrizia Veroli – «Con ogni probabilità partiva da alcune cellule di base di movimento, che le permettevano di ripetere poi certi passaggi dinamici: come il movimento che le faceva chiudere il corpo flettendolo in avanti e come affondando la testa, circondata dalle braccia, nel proprio ventre, o invece la tensione che la portava a spinger le braccia in avanti, oppure verso l’alto, o ancora lo slancio con cui inarcava all’indietro il busto nell’atteggiamento estatico della baccante». Sappiamo che l’ispirazione le veniva dalle immagini vascolari antiche, dai bassorilievi classici come dalle opere rinascimentali, nelle quali, sulla scorta di Walter Pater, confidava ritrovare la sopravvivenza dello spirito antico.
Un eguale anelito animava ai suoi occhi le opere lasciateci dalla stirpe dei Gentili e quelle di Luca della Robbia o di Sandro Botticelli, ed era il soffio della paganità. Così la Duncan poteva rispondere a quanti la rimproveravano d’andare pedissequamente informando la sua danza su vestigia da museo coll’affermare che «dans mon art je n’ai pas de tout copié, comme on le croit, les figures des vases grecs, des frises ou des peintures. J’ai appris d’eux à regarder la nature et lorsque certains de mes mouvement rappellent des gestes aperçus sur des œuvres d’art, c’est uniquement parce qu’ils sont puisés, comme eux, à la grande source naturelle». In mostra s’osservano alcuni ciottoli di questa via che dai riti dionisiaci doveva condurre al Teatro degli Champs-Élysées: il Calco di fregio con figure femminili danzanti (I secolo a.C.), la Figurina di danzatrice (II secolo a.C.) e una copia di La Danse grecque antique d’après les monuments figurés (1896), repertorio di passi e movenze antiche raccolte dal compositore francese Maurice Emmanuel.
Nietzsche era in quegli anni una lettura familiare alla colta società europea (la sua influenza sugli artisti è testimoniata da alcune delle opere esposte, come Ringeltanz, 1899, di Franz von Stuck) sicché Savinio non peccò d’un’arguzia inopportuna allorché, nelle pagine di Narrate, uomini, la vostra storia, fece della Duncan una sorta di deità terrigena, simile ai numi discacciati di Heinrich Heine. La danzatrice interpretò effettivamente la rinascenza del paganesimo antico, così come l’andava riscoprendo l’intellighenzia di allora; tuttavia, sebbene attingessero alle raffigurazioni antiche, quei suoi gesti, fluidi e molli come di giunco, che si vedono in alcune fotografie sono inequivocabilmente 1900. Cosa v’è infatti di più liberty del grande quadro di Plinio Nomellini che fa da manifesto alla mostra, Gioia (1914), dove l’artista è ritratta danzante in riva al mare, su un tappeto di bave iridescenti, con la veste che gonfiata dal vento come nell’Atalanta e Ippomene di Guido Reni? Gli stessi studi preparatori, realizzati da Nomellini durante il soggiorno della Duncan in Versilia, sono mutevoli incarnazioni d’una medesima linea, ch’è quella vincida ed elastica dell’art nouveau. D’una stessa Stimmung sono pervase La Danza (1902), bronzo di Edoardo Rubino, e le ceramiche, mellee e delicate, di Domenico Baccarini i cui titoli (Ebrezza, Sensazioni dell’anima) evocano ancora una volta, nell’eloquenza dei gesti, stati ineffabili. Anche l’adesione panica al mondo, che la Duncan intese realizzare attraverso la danza, trova espressione nello stile floreale del Manifesto per l’Esposizione di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902 di Leonardo Bistolfi o ne Le lucciole (1898-1899) di Nomellini, un’opera tutta permeata d’uliginosi umori notturni.
Il rapporto della Duncan con gli artisti déco fu meno stretto di quel che non fosse avvenuto con Rodin, Nomellini o Romagnoli; sicché, cambiando il gusto, la mostra s’estende ai rapporti tra le arti visive e la danza moderna, che certo fu segnata nella libertà espressiva dei movimenti dalla rivoluzione della Duncan. Nel déco le movenze si irrigidiscono, i vegetali da pieghevoli si fanno fossili, le edere somigliano a coralli marini e le ballerine acquistano un non so che di fissità egizia. Se nella Danzatrice (1925), sofisticata ceramica di Anselmo Bucci e Francesco Nonni, certa delicata pastosità liberty sopravvive ancora sotto l’epidermide secessionista, in La fiamma (1925) di Francesco Messina il trattamento del tema s’allinea col nuovo gusto. Anche la Danzatrice con cerchio (1913) di Ercole Drei e la Danzatrice nuda (1920) di Armando Vassallo sono spiccatamente déco. I futuristi non amarono la Duncan; Marinetti le preferiva Loïe Fuller, la ballerina falena che costruiva aeree coreografie di luce e di stoffa; le Aerodanzatrici (1930) di Tullio Crali non sono più che sintagmi di moto.
Nel dopoguerra le apparizioni della Duncan s’andarono sempre più diradando. Il gusto mutava, il suo corpo era stanco. Il suo ultimo gesto fu di annodarsi la sciarpa; questa s’impigliò nei raggi della sua automobile strangolandola. Fu quasi un contrappasso: quei veli sciolti intorno al suo corpo coi quali aveva voluto riportare la danza alle fonti pristine della vita, ne segnavano adesso la morte. Certo non senza ironia, Savinio la considerò una divinità esiliata. Morì a cinquant’anni. Ai numi non s’addice l’ignominiosa vecchiezza.