Marie-Charles Dulac nel 1898, anno della sua morte

 

 

Marie-Charles Dulac, “Sancta Trinitas Unus Deus”, litografia, da “Les Cantiques des Créatures”, 1894, New York, MoMA

 

Il mio primo incontro con Charles Dulac fu tra i Souvenirs d’un marchand des tableaux di Ambroise Vollard. In quel libro di sogni sbriciolati in storielle e aneddoti il giovane mistico figura a pochi mesi dalla morte (28 dicembre 1898), in occasione della mostra voluta in memoriam dai suoi amici, Aman-Jean, Carrière, Lerolle…, e ospitata da Vollard in rue Laffitte. Mi rimase in mente «un cielo rosa anemico» stagliato «su un livido manto d’acqua grigia».

Più tardi incrociai la riproduzione di un piccolo cartone, una veduta della penisola di Portofino incendiata dal tramonto: fui colpito dalla sensibilità sintetica, dalle scale rosa-viola rosa-arancione, dall’iscrizione in basso a destra «Rapallo – 95 / M Ch Dulac. +.». Venni a sapere che la M doveva sciogliersi in Maria, il nome di Nostra Signora anteposto al suo dall’artista nel momento della conversione; ugualmente si spiega la Croce. Siccome l’opera risultava proprietà di una galleria parigina, andai con la speranza di vederla dal vivo: Galerie Hubert Duchemin, rue de Louvois 8, 2° arrodissement. In quell’ovattato appartamento su strada, ornato di magnifici morceaux del Sette e dell’Ottocento, la cordialità degli ospiti, la loro intima soddisfazione nell’avere di fronte un curioso di Dulac, alimentarono in me un’affezione particolare verso quel pittore e incisore francescano morto a trentatré anni. Purtroppo il Portofino era stato venduto, ma mi misero fra le mani un cartone dello stesso formato che dava sul grigio, lasciandomi da solo perché lo potessi guardare. Mi fornirono poi qualche riferimento bibliografico, che presto avrei integrato con il pochissimo di disponibile, a cominciare dalle Lettres, agli amici, soprattutto dall’Italia, pubblicate a Parigi nel 1905 e mai ristampate. Qui avrei trovato descritto il frangente in cui Dulac dipinse la pochade Duchemin: da Montallegro, sopra Rapallo, stordito dalla vista mediterranea, intirizzito per il freddo decembrino, causa di una «fièvre de Pise».
Qualche tempo dopo fu in un’esposizione pre-asta da Artcurial, sugli Champs-Élysées, che ritrovai Dulac: una tavoletta un po’ più grande dei cartoni, una veduta di nuovo tutta sui rosa, ma più anemica, con un paesino steso in orizzontale, case basse, bianche calcinate, e tetti appena rialzati di rosso spento. Siccome nel frattempo ero venuto a sapere dell’amore dell’artista per la cattedrale romanica di Vézelay, dipinta da lui a più riprese nel 1891 e poi luogo di conversione, immaginai si trattasse di uno di quei villaggi rurali perduti nelle immensità della pianura borgognona intorno alla rocca medioevale. Doveva essere un quadro di prima della Chiamata, essendo firmato semplicemente, con grafia minuta e sottilissima, «Ch Dulac». Ma mentre si infoltiva il mio dossier cartaceo, erano davvero poche, e lo sono rimaste fino a oggi, le occasioni di incontro diretto con le opere, per la massima parte custodite in collezioni private e alcune, magari, sepolte nei monasteri dove Dulac, fattosi terziario francescano, sostava tra Francia e Italia, lasciando ai confratelli, come nel Medioevo, un ‘grazie’ per il vitto e l’alloggio. Insomma, l’esile corpus dell’artista comprende una produzione ‘segreta’, si può pensare di una discreta consistenza, e non è da invidiare, ma è da invidiare!, Jean-David Jumeau-Lafond, lo studioso di simbolismo che prepara attualmente il catalogo ragionato delle opere.
Jumeau-Lafond esordì su Dulac all’interno della memorabile mostra del 1999, da lui curata, Les Peintres de l’âme, mentre in una del 2006-’07, come l’altra di taglio generale sul simbolismo idealista francese, ma nel genere ‘paesaggio’, presentò, incredibilmente fuori di Francia (Pamplona, Girona, Nuoro), un notevole insieme dell’artista: per la prima volta, dopo un secolo! All’interno di un appuntamento troppo eterogeneo sul paesaggio mistico «da Monet a Kandinsky», Dulac mi è riapparso, nella primavera del 2017, al musée d’Orsay, in quattro quadri ‘assisiati’ della collezione simbolista di Lucile Audouy (già esposti nel 2006), tutti appartenenti al periodo finale, alla serie degli études d’Italie spedita in Francia dal suo ascetico tour, quando malato, sapendosi perduto, raggiunge l’apice della ricerca. La circostanza più recente per vedere un buon nucleo di opere di Dulac è stata, nel 2018, la mostra La porte des rêves alla propriété Caillebotte, Yerres, Île-de-France: la strepitosa raccolta, già conosciuta, di un fanatico del simbolismo, coperto da anonimato.
Come dicono le sue lettere, Dulac era giunto per la prima volta ad Assisi, sulle tracce del Poverello, all’inizio del 1896, per poi prendervi alloggio l’anno dopo, e l’anno dopo ancora: nel piccolo santuario delle Carceri, sul Monte Subasio, luogo di preghiera per San Francesco e i suoi seguaci. Di qui si spalancavano al pittore gli orizzonti, fra brulle montagne e, in basso, la fertile valle tiberina. Lo si immagina con la sua inattuale giacca a doppio petto, au col rabattu, i gesti lenti dovuti alla malattia, inclinare leggermente la testa, strizzare gli occhi, mettere la mano ad abat-jour, come faceva, secondo una testimonianza, quando doveva studiare la struttura di un paesaggio. Traduceva quel che vedeva dal Subasio in diafane visioni solari, alba o tramonto, consapevole però, come scrive, dei rischi annidati in un eccessivo trasporto fenomenico, perché il «Notre Séraphique Père Francois», cantando al sole, non è al sole che cantava, ma a «Dieu Notre Seigneur»: «ci si allontana dalla via della grazia per entrare in quella della natura».
Dulac scrive della necessità di «fare astrazione di se stesso»: come ricerca espressiva, si riferisce al genere ‘paesaggio’. Il corpo umano lo turba, carico di tentazioni: respinge, in favore dei Primitivi, il materialismo anatomico di Michelangelo – «m’est impossibile trouver aucune vie d’âme dans ces gros corps». Idem, lo infastidisce la magniloquenza: resta indifferente alla Basilica di San Pietro, lo incantano invece i mosaici paleocristiani, a Roma e specialmente a Ravenna.
Nato a Montmartre nel 1865 e lì morto, fra le braccia della madre, nel 1898, Dulac aveva cominciato nelle arti applicate: carte da parati, decorazioni teatrali. Poi fu allievo di Humbert, Roll e Gervex. Un certo periodo di, soprattutto, ritratti e nature morte. Nel 1892, dopo essersi intossicato, con effetti irreversibili, per un uso prolungato di biacca, si converte: sceglie di dedicarsi totalmente al paesaggio, specchio del Signore. Intende il dipingere una preghiera, si sente un «intermédiaire bienheureux», e comincia la sua ricerca personalissima all’interno del variegato universo simbolista, legandosi a Puvis de Chavannes e a Carrière, e stringendo rapporti con alcuni dei Rosacroce.
Il ‘simbolico’, per Dulac, riposa nella scala dei colori, ridotta allo spettro solare. «Egli sa che a tale sentimento, come a tale virtù, corrisponde un dato colore», scrive nella presentazione delle Lettres R. Louis: è il principio dinamogenico abbracciato dal tardo Seurat, pittore che Dulac ammirava. Ma Dulac riveste questo principio di un significato cristiano, ogni colore indica uno dei misteri della vita di Gesù: come avverte Louis, il viola, in basso, significa l’umiltà e la vita terrestre del Salvatore; il giallo, in alto, la sua fede e la sua resurrezione. Il giallo è il riflesso di quella luce abbagliante che non si può guardare fissamente, ma che intona, di Lassù, l’intera composizione.
La prima affermazione di Dulac fu nelle vesti non di pittore, ma di incisore litografo. Su pietra esordì con l’album Paysages, 1893, in cui già parla il suo finissimo idealizzare, a partire da due-tre toni smorzati, ma poi, nel 1894 (lo stesso anno della Vita di San Francesco del protestante Paul Sabatier) compare Le Cantique des Créatures: cieli lattei bucati da un pallido sole (Jesu, sol justitiae), specchi d’acqua evanescenti al chiaro di luna (Stella matutina), cieli in tempesta, ardenti, graffiati da strie luminose (Spiritus Sancte, Deus)… germe, le strie, di quelli che saranno i cirri quasi nouveau in certe opere del Dulac pittore. Quasi tutte le stampe sono tirate in due colori: anche in arancione! L’in-folio conquista amatori e critici, fra questi – incontro fatale – Huysmans. È lo Huysmans della conversione, che celebrerà nel romanzo La Cathédrale (1898), protagonista il neofita benedettino Durtal, queste incisioni francescane, «glosse di preghiere e di stati d’animo», prendendo Dulac a modello della sua nuova posizione nel mondo. Così come «aveva fatto di Des Esseintes un fervente di Redon e di Moreau in À rebours, Huysmans dà a Durtal il gusto di Dulac in La Cathédrale» (Jumeau-Lafond).
Non solo: il trasporto con cui egli descrive l’artista appena morto nel necrologio in testa al catalogo della mostra da Vollard, facendone una specie di santo – «non aveva niente dell’uomo dei nostri tempi; amava teneramente la povertà, disprezzava la pubblicità, si nutriva come un eremita, riposava, dove capitava, in giacigli monastici, e dipingeva a sacrificio, tutto in lode del Signore» –, questo trasporto indica forse ‘in figura’ quel che Huysmans avrebbe voluto essere nel darsi a Dio, fuori dall’intrico insanabile di «sincerità religiosa» e «fabbricazione letteraria» (Thibaudet). Ecco il preziosismo ‘satanico’ di Huysmans, così lontano dalla purezza di cuore di Dulac, nella descrizione ecfrastica di alcuni studi ‘presi’ dal pittore in una foresta di pini che lo aveva stregato vicino Fiesole: «questi alberi spuntano sui suoi panneaux, a tutte le ore del giorno, sotto tutte le forme, in tramonti che insanguinano i tronchi, in pomeriggi che infiammano il verde dei fusti e scaldano di rosso ciliegia, a terra, il tappeto di aghi secchi». Se il tempo si fa più scuro o brumoso, i pini «si drizzano color cera, con cime affilate come rimpianti…». Si potrebbe continuare.
Huysmans e Dulac: come potevano intendersi, pur entro la stessa confessione cattolica, due anime così diverse? Si intesero, al punto che quando Huysmans si ritirò nell’abbazia benedettina di Ligugé (Vienne), per farsi oblato, progettava insieme a Dulac di fondarvi una colonia di artisti cristiani: ma sopravvenne la morte dell’amico.
Artisti cristiani… cosa significava «arte cristiana», meglio «sacra», nella fin-du-siècle? Una controversia che pervade gli ambienti simbolisti, a cui Dulac dà una risposta parziale ma convincente: paesaggio! Lo vede bene Maurice Denis, fra i più impegnati rifondatori dell’arte sacra, in un articolo su Dulac del 1905, poi confluito nelle sue Théories (1912): egli crede davvero che i paesaggisti possano essere «les peintres de sainteté de notre temps», e lo crede sopra l’esempio «sintetico» e «corotiano» di quel pittore a lui così conforme, di cui loda «les blanches matinées de Toscane e d’Ombrie», con descrizioni che si potrebbero applicare senza scarti ai suoi stessi pasquali dipinti italiani. Del resto anche Charmes et leçons de l’Italie di Denis, 1933, sembra influenzato, in spirito, dalle Lettres di Dulac.
I momenti più profondi dell’esperienza mistica di Dulac sono legati a due luoghi: la Verna e la fontana di Vaucluse. Ne parla in una lettera ispirata del 12 aprile 1898, spedita da Villeneuve-les-Avignon. La Verna, stazione delle stimmate di San Francesco, è «il Signore innalzato nell’ignominia, al momento in cui le rocce si fendono», è «il vero sacrificio con la Speranza». Vaucluse, in Provenza, è «tutta la sua Carità, con il nitore infinitamente puro dell’anima divina del Salvatore». La fontana appare a Dulac «alta», la roccia sotto il segno mosaico, l’acqua «un cristallo azzurrino abbondante e vivo»… di qui Petrarca progettò la sua ascesa agostiniana al Monte Ventoso e Dulac capisce come egli «sia stato toccato dall’amore per Dio in presenza di questo spettacolo». L’impressione che ne ha, lo ammette, non si può «descrivere in pittura».