Lasciarli fare come se niente fosse, oggi non si poteva. L’Europa che vogliono, reazionaria, neo nazionalista e razzista, sta prendendo forma attraverso un processo di disgregazione che solo a posteriori verrà riconosciuto come un momento di rottura nella storia. Restiamo alla “cronaca”? La Svezia deporta 80 mila profughi, gli stati si barricano dietro le frontiere, prosegue la conta dei morti nel Mediterraneo (ieri ancora trentuno) e la ministra francese della Giustizia Christiane Taubira si dimette perché la Francia prolunga lo stato di emergenza: è in questo contesto di cui troppo pochi avvertono la gravità che le destre europee hanno scelto la città di Milano per celebrare se stesse e il loro momento.

Sopra la vecchia fiera a metà pomeriggio volteggiano gli elicotteri. E’ qui che hanno deciso di incontrarsi a porte chiuse per due giorni i partiti che dalla scorsa estate si sono riuniti sotto la sigla Europe of nations and freedom (Enf). Il padrone di casa è Matteo Salvini e la regina del convegno è Marine Le Pen. Al capo della Lega basterà una foto con la leader del Front National per accreditarsi come una delle figure di riferimento delle destre europee. Il possibile ospite d’onore invece parla la lingua di Putin, è il granduca di Russia George Mikhailovic Romanoff, ultimo erede degli zar. Titolo dell’incontro: “Più liberi più forti. Un’altra Europa è possibile”.

Di contorno, a sostenere l’auto consacrazione in salsa russa di Salvini e Le Pen, ci sono anche 36 europarlamentari delle destre xenofobe d’Europa. Austriaci heideriani, autonomisti fiamminghi, il partito della libertà dell’olandese Geert Wilders che si batte contro “l’odissea musulmana” e rappresentanti delle destre razziste di Polonia e Romania. “Se un governo di sinistra come la Svezia – ha detto Salvini prima di salire sul palco – decide di espellere 80 mila persone significa che Schengen è morto. Se tutti controllano i confini e noi siamo gli unici a non farlo, chissà dove andranno a finire tutte queste persone. Qualche uomo al Brennero, a Ventimiglia e al confine con la Slovenia non sarebbe male”.

Pur nella consapevolezza che in questa fase di autismo politico a sinistra è complicato organizzare azioni di resistenza su questioni dirimenti come l’antirazzismo e l’antifascismo (si dice “non ci sono i numeri” e però sabato scorso migliaia di persone erano in piazza per le unioni civili), qualcuno ieri sera almeno ha provato a lasciare un segno diverso con una mobilitazione doverosa – un corteo – se non altro per dare un senso alla retorica della “memoria” che una volta all’anno viene riscoperta dalle istituzioni, le stesse che ieri non hanno detto una parola sulla due giorni ultra nazionalista. Nemmeno un balbettio sulla Milano medaglia d’oro (etc, etc), del resto sono giornate di grande fibrillazione per le primarie del Pd.

Sono scese in piazza sigle, persone, situazioni, pezzi di movimento che si ritrovano nell’assemblea “Milano antifascista antirazzista e meticcia”. Qualcuno, al mattino, ha consegnato un mucchio di letame fumante a pochi passi dal convegno fascio leghista, la sera invece più di duemila persone hanno marciato fin dove era possibile in disordine sparso – stop a 40 metri dai blindati della polizia schierati a muro – dietro allo striscione del centro sociale Cantiere. Soprattutto ragazzi e ragazze molto giovani, una ventata di antifascismo più fresco del solito che si è accompagnato con le note swingate della Banda degli Ottoni fino al gran finale strapaesano con i fuochi d’artificio. Un assedio divertito. Diversi i cartelli degni di nota: “Antifascisti di fatto”. E anche un calibrato riadattamento di un lugubre motivetto antifascista che andava negli anni ’70: “Mio nonno ce l’ha insegnato, abbattere i confini non è reato” (gli studenti tornano in piazza questa mattina in Cairoli). I nonni ieri non erano in piazza, però, con l’Anpi, sono arrivati alle stesse conclusioni citando una frase di Altiero Spinelli del 1944: “Ad uno a uno i popoli europei oppressi riconquistano la propria libertà, ma non per ricominciare a chiudersi, come prima del 1939, nelle autarchie e negli egoismi nazionali”. La storia insegna, anzi no.