Il tanto celebrato «duello» televisivo officiato da Bruno Vespa tra Matteo Renzi e Matteo Salvini costituisce un precedente nel e per il servizio pubblico.
Al di là del successo di ascolto. Esiste una consolidata giurisprudenza che considera validi i principi generali della legge del 2000 sulla «par condicio» sempre, al di là del periodo stretto della campagna elettorale. Tra l’altro, siamo in prossimità di scadenze regionali delicatissime: un vero e proprio test per il governo giallorosso scaturito dalla crisi di agosto.

La formula del «duello» mediatico, per di più, ha un senso in un sistema elettorale bipolare. Non a caso Vespa ha insistito sui precedenti, che hanno avuto come protagonisti Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Non è così oggi e certamente il quadro politico italiano è assai composito.

Perché, allora, invitare due e solo due esponenti, secondo un criterio meramente spettacolare e divistico?

Vale a dire, la coppia perfetta per dar luogo ad una rappresentazione platealmente costruita a tavolino? E ora? Seguiranno altri confronti o si è trattato di un omaggio straordinario a leader variamente sconfitti alla ricerca della ribalta? La questione è seria e merita un’occhiata da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e della Commissione parlamentare di vigilanza.

Se nessuno fiata il precedente rischia di diventare la regola. Con l’abrogazione di fatto della legge n.28, che pure ha evitato il caos nella comunicazione politica.

E ora, a rigore, Bruno Vespa dovrebbe programmare altri confronti, dando voce alle diverse forze in campo. Senza discriminazioni. Per evitare aggiramenti e tentazioni, la via maestra è quella di reinventare le tribune politiche. Senza nostalgia di un tempo al di là di tutto irripetibile, sarebbe importante immaginare un «format» adeguato a raccontare la vicenda politica interrogando direttamente le fonti, con spirito critico e indipendente.

È vero che i servizi parlamentari della Rai hanno utilmente sperimentato tribune a diverse voci. Con il limite, però, dell’infelice collocazione oraria e delle presenze un po’ troppo casuali.

Si potrebbe immaginare una collocazione di maggiore efficacia per l’ascolto e utile a far conoscere meglio ad un pubblico costernato e stanco cosa succede davvero. Informazione politica secca, diversa dalla narrazione prevedibile e ripetitiva dei talk. È l’occasione per la Rai di ripensare al suo palinsesto.

L’impressione che si ricava in questa stagione di apparente cambiamento è che le cose televisive rispondano sempre a logiche e a stili antichi, impermeabili a qualsiasi scossa.

Vale a dire: i tempi di antenna e di parola attribuiti ai vari soggetti variano quantitativamente a seconda delle proporzioni elettorali. Tuttavia, i modelli culturali rimangono eternamente gli stessi.

All’origine del rapporto inquinato con il mondo politico sta un’antica anomalia italiana: l’essere il servizio pubblico non già un’azienda autonoma, bensì una costola di quell’universo che dovrebbe contribuire se mai a osservare per meglio raccontarlo ai cittadini-utenti. E poi, suvvia, un’aria nuova: stessi ospiti, stessi volti come in una soap opera.

Se si vuole, si possono ripescare proposte di riforma anche recenti, volte a costruire un diaframma efficace tra servizio pubblico e maggioranze di turno. Attraverso una Fondazione diretta da personalità autorevoli ed estranee a consorterie, salotti o gruppi di potere.
La riforma della Rai era nei punti programmatici del nuovo esecutivo. Se ne vuole riparlare? E qualche volenteroso vigilerà sulla par condicio?