Cosa si prova ad essere un genio, avendo un fratello ancora più geniale? Qualche indizio di quanto può capitare in una condizione del genere traspare dalla fitta corrispondenza che Simone e André Weil si scambiarono, tra il febbraio e l’aprile del 1940, ora tradotta da Adelphi con il titolo L’arte della matematica (a cura di Robert Chenavier e André A. Devaux, edizione italiana a cura di Maria Concetta Salapp, pp. 185, euro14,00).

Il momento non era dei migliori: poche settimane dopo l’invasione della Cecoslovacchia, preoccupato dalla possibilità che la Francia entrasse in guerra, André era riparato in Finlandia, nel tentativo di sottrarsi alla leva. Sospettato di essere una spia sovietica, fu arrestato dai finlandesi, estradato, per essere condotto nel carcere militare di Rouen. Proprio qui, lo raggiunse la prima delle otto lettere inviategli dalla sorella durante la sua prigionia.In un momento così drammatico, nella corrispondenza tra André e Simone non sembra esserci spazio per le emozioni: al più, qualche accenno all’umore soddisfacente di entrambi; poi, subito dopo, André e Simone passano al merito delle questioni. Nasce anzi l’impressione che la forza morale dei due fratelli risieda proprio nella loro capacità di mantenere una tensione continua, senza soste, verso le grandi questioni che occupano da anni le loro menti.

La misura del genio
Il discorso vola alto, dalla letteratura alla politica, dall’epica indiana alla filosofia greca, dalla bellezza nell’arte all’esoterismo, dallo stile dell’espressione linguistica fino all’estasi, alla gnosi e alla logica; soprattutto – per l’insistenza quasi ossessiva di Simone – questo scambio epistolare tra i due fratelli investe la matematica, l’arte di cui André – poco più che trentenne – è già un sommo maestro.
Cosa potè dunque provare Simone nel misurarsi con la genialità del fratello? Per averne un’idea, possiamo affidarci alla sua stessa «autobiografia spirituale»: «A quattordici anni sono piombata in una di quelle disperazioni senza fondo dell’adolescenza e, a causa della mediocrità delle mie facoltà naturali, ho seriamente pensato alla morte. Le doti straordinarie di mio fratello, che ha avuto un’infanzia e una giovinezza paragonabili a quelle di Pascal, mi obbligavano a prenderne coscienza. Non rimpiangevo i successi esteriori quanto il fatto di non poter sperare di accedere in alcun modo a quel reame trascendente in cui entrano solo gli uomini autenticamente grandi e in cui dimora la verità. Avrei preferito morire piuttosto che vivere senza di essa». Malgrado queste premesse, poche righe più sotto Simone affermava che qualsiasi essere umano è in grado di raggiungere in qualche modo il «reame» della verità, se lo desidera intensamente e «compie un perpetuo sforzo d’attenzione per raggiungerlo». Di più: siccome il vero, il giusto, il bello e il bene – nella visione platonica di Simone – sono connessi tra loro nell’unità del divino, questa tensione verso la verità matematica riguarda in effetti l’assoluto e, al tempo stesso, il senso dell’esistenza.

Fin dalla prima lettera al fratello prigioniero, Simone invita André a condividere con lei il contenuto delle sue «scoperte»; lo incita a farlo, anche ammettendo che non riuscirà forse a coglierne tutti i risvolti. In effetti, nella lettera di risposta, André manifesta tutto il suo scetticismo: contesta tra l’altro l’orientamento platonico della sorella, sostenendo che i suoi lavori devono essere concepiti come costruzioni, creazioni, più che come scoperte. Aggiunge, per questo, che i risultati della ricerca matematica sono paragonabili alle opere d’arte; e, come le opere d’arte, non sono suscettibili di spiegazioni, perché solo in esse risiede il loro preciso significato. Adombra alla fine la convinzione che la sorella non potrà comprendere i suoi lavori, non avendo le competenze adeguate.

Ma è poi vero che Simone fosse una sprovveduta, rispetto alla scienza matematica? Già in occasione del suo diploma di studi superiori, alla fine degli anni Venti, si era occupata di Cartesio e della scienza nell’età moderna. Dopo altri frammenti di riflessioni sulla scienza – degli anni Trenta – ci rimangono scritti più impegnativi, dei primi anni Quaranta, sulla scienza antica, su quella classica e quella contemporanea, insieme ad acute riflessioni sulla meccanica quantistica. E nella stessa corrispondenza sulla matematica, indirizzata al fratello, Simone dà mostra di una conoscenza molto raffinata dell’algebra babilonese, della geometria greca e delle dottrine pitagoriche. Però, quando il fratello si convince finalmente a inviarle una sintesi sulla storia della teoria dei numeri e sul ruolo delle analogie in matematica, Simone è costretta ad ammettere: «Della tua lettera di sedici pagine (che ho letto più volte) non ho capito niente». André l’aveva del resto prevenuta: «Ti compiango, se leggerai tutto questo (…), mi pare proprio di aver scritto in ostrogoto».

Due anni dopo, forse memore di quella sconfitta, Simone doveva ammettere (a proposito del «villaggio» degli studiosi di scienza): «Questo villaggio è chiuso, non si entra dall’esterno. Anche avendo studiato vent’anni i libri degli scienziati, quando non si è uno scienziato di professione, si è un profano nei riguardi della scienza e le opinioni dei profani non hanno alcun credito nel villaggio». E ancora, più avanti: «Gli scienziati del periodo classico avevano un’immagine della verità scientifica certamente difettosissima, ma ne avevano una; quelli di oggi non hanno in mente nessuna cosa, nemmeno vaga, lontana, arbitraria, impossibile, verso la quale possano volgersi, e che abbia il nome di verità (…). La sparizione della verità scientifica ha fatto scomparire ai nostri occhi la verità stessa, abituati come siamo a prendere l’una per l’altra. Da quando la verità è scomparsa, l’utilità ha subito preso il suo posto, poiché l’uomo dirige immediatamente i suoi sforzi verso qualche bene. Ma allora l’intelligenza non ha più qualità per definire quest’utilità, né per giudicarla, ha solo il permesso di servirla». L’anno successivo, forse emulando il rito catartico dell’endura, Simone si sarebbe lasciata morire.

Investiti di una missione
Se dobbiamo dar fede alla testimonianza della nipote – Sylvie, la figlia di André – Simone e il fratello erano convinti di dover portare a termine una missione: per André, quella della matematica, che lo aveva spinto a schivare sistematicamente i pericoli, anche la lotta contro il nazismo, convinto di non poter privare il mondo del proprio contributo scientifico; per Simone, la pretesa di poter raggiungere l’assoluto, congiunta a un vero e proprio culto dell’umiltà; un culto, per altro, che secondo la nipote non la esimeva da «un’arroganza abbastanza straordinaria», pari a quella del fratello. Eppure, malgrado fossero così distanti nell’amore per la vita, il loro legame superò la morte, fino ad opporre André ai loro stessi genitori, anche in tribunale: «(André) pensava, a torto o a ragione, che sua madre avesse creato in Simone un bisogno di lei, e che Simone ne fosse morta».

Però, malgrado al termine della propria vita André rivendicasse il fatto di avere avuto una buona esistenza, contrariamente alla sorella, anche in lui covava il cruccio di avere fatto «un’opera d’arte» che non poteva essere compresa nemmeno dalla geniale Simone. Incontrando Akira Kurosawa in Giappone, nel 1994, André avrebbe detto: «Ho un gran vantaggio su di lei. Posso amare e ammirare la sua opera, lei non può né amare né ammirare il mio lavoro».