Come un’eco profonda, emotivamente dolorosa, ma anche trascinante e liberatoria. Il fuoricampo della storia di Nina e Madeleine – cui Filippo Meneghetti ha lavorato per otto anni – è il passato. E non solo il loro: quello delle tante coppie omosessuali nei secoli costrette ad amarsi in segreto per decenni. In questo caso, Madeleine era sposata e temeva di dirsi al marito e ai figli, nonché alla piccola città nel sud della Francia, il cui clima occlusivo aleggia in Due, opera prima giunta in sala in Italia al Nuovo Sacher di Nanni Moretti in anteprima), – dopo una vita già ampia nel mondo e l’aver fatto parte della rosa iniziale dei migliori film stranieri all’Oscar.

Ma il fuoricampo del film è anche l’amore per il cinema e la sua storia, nutrito da Meneghetti – trasferitosi in Francia dopo studi a New York – ed espresso grazie all’invenzione di un geniale congegno drammaturgico, tutto giocato tra due appartamenti gemelli, uno di fronte all’altro: come vite congiunte nel momento in cui Madeleine, vedova, convive con Nina all’insaputa della figlia e del figlio, o di vite parallele quando, proprio mentre le due donne stanno progettando una vita libera a Roma, una padella resta a bruciare sul fuoco, e Madeleine, sempre più in difficoltà dinanzi alla prospettiva di palesarsi ai familiari, crolla per un ictus, che le impedirà di parlare.
Allora le porte si chiudono. Gli spazi onirici del prologo (il parco di quando erano bambine, il giocare a nascondersi, i versi stranianti degli uccelli), e quelli compressi delle due case si fanno una cosa sola coi tempi del film. A tendere l’arco di una corrente hitchcockiana altissima, imbevuta dei volti e dei corpi autentici delle attrici protagoniste (come non amare Barbara Sukova e Martine Chevallier in questi panni). E se è al cardiopalma la partita ingaggiata da Nina a colpi di spioncino e visioni rubate per liberare la donna che ama da una badante ambigua e dalle premure distorte della figlia, dal ricovero-esclusione sociale e dalla sedazione forzata, non meno epica è la strada di Madeleine per ritrovare il respiro e la verità di sé oltre ogni atavico obbligato silenzio.

Com’è scaturito questo lungo progetto?
Risale nel tempo in modo “vertiginoso”. É il mio primo film e dentro c’è la mia formazione e la storia di due persone a me vicine, cui devo la passione per il cinema. Una delle loro vicende era particolarmente dura, mi ha molto segnato e ho voluto rendere omaggio a queste persone e al loro dono. Poi, anche se la vicenda del film è completamente inventata – ci tengo a precisarlo – circa dieci anni fa ho saputo di due donne che, rimaste entrambe vedove, vivevano in due appartamenti sullo stesso pianerottolo e lasciavano le porte aperte, parlandosi da una casa all’altra. Questa immagine mi è sembrata la metafora dalla quale potevo innescare la mia storia.

Ma queste due donne dirimpettaie stavano insieme, come Nina e Madeleine?
No, erano solo amiche. Ma mentre con Malysone Bovorasmy – mia co-sceneggiatrice e compagna – stavamo scrivendo il film, ci siamo imbattuti in un’altra storia somigliantissima. Essendo un uomo, allora trentacinquenne, e volendo raccontare di due donne omosessuali di settant’anni, mi premeva ci fosse una coerenza. Così, facendo leggere la sceneggiatura, siamo venuti a sapere di una coppia che abitava vicino Parigi, esattamente nella situazione che descrivevamo. Fra l’altro sono una francese e una italiana. Da parte mia, ho provato a incontrarle o a far leggere loro la sceneggiatura, ma non hanno voluto, cosa che rispetto totalmente. Spero che vedano il film.

In Due lo spazio è cruciale ed è già struttura. Avevate anche un modellino tridimensionale di riferimento? Il dispositivo architettonico è il luogo in cui si incontrano la geometria e la metafora del film, come provenissero dalla stessa sorgente. Sì, con un amico ho preparato una maquette, un modellino 3D dei due appartamenti, cosa che ti permette di esplorare e di provare le diverse angolature e i punti di vista. Così il pianerottolo – che sembra uno spazio anonimo – diventa una frontiera difficile da attraversare, mentre i due appartamenti sono lo specchio dell’anima dei due personaggi. Quello di Madeleine, pieno di tutti gli oggetti accumulati in trent’anni di vita familiare – tra i quali alcuni apparentemente senza senso – pesa su di lei come la sua stessa storia (alla scenografa dicevo, deve essere uno spazio talmente caloroso da essere soffocante). Mentre l’appartamento di Nina è nudo perché la sua proprietaria non ci ha mai abitato. Nella terza parte, si passa poi brevemente dal punto di vista di Anne, la figlia, e si rende conto del suo dilemma.

Deux è anche una meditazione registica sulla visione. Penso per esempio a quella dallo spioncino, grazie alla quale Nina capovolge lo sguardo e trasforma il voyeurismo della società borghese che sorveglia in strategia d’amore.
Il mio lavoro consiste nell’innescare la macchina dell’immaginazione dello spettatore. Per farlo cerco di mostrare il meno possibile: nel cinema è ancor più importante il fuoricampo. E anche il personaggio di Nina, come dici tu, pur nei limiti in cui la storia lo costringe, si batte per liberare lo sguardo dalle gabbie imposte dalla società, dalle gabbie del corpo e dello spazio. Al direttore della fotografia dicevo di creare un ambiente freddo per personaggi caldi. Ma il personaggio che è più profondamente attivo – malgrado la malattia – è quello di Madeleine.

Nello stesso tempo il silenzio cui la malattia la costringe è come una discesa dentro se stessa, dopo anni di mascheramento, dovuti, tra l’altro, come si narra a latere, a un marito dispotico, la cui impronta si riflette nel personaggio del figlio.
Sì, paradossalmente la malattia a volte libera se pure in maniera terribile; è la sua contraddizione. Credo che tutte le cose importanti della vita siano contraddittorie. E io volevo che il film assomigliasse il più possibile alla vita. Grazie alla malattia, Madeleine riesce a fare un percorso di liberazione, a svestirsi di quell’autocensura che le si era appiccicata addosso. Cosa che non era riuscita a fare da sana.

Una delle fonti di energia indelebile del film è data dalle attrici protagoniste. Come sei giunto a loro?
Cercavo due attrici molto diverse fra loro che avessero il coraggio di mostrare la propria età onestamente e che non avessero fatto ritocchi, purtroppo un requisito arduo da ottenere. Invece per me era una conditio sine qua non, fare immagini che dicessero altro da ciò che solitamente ci viene mostrato in questa società ossessionata da una certa idea di bellezza, di gioventù e di perfezione del corpo. Che diventa un feticcio per cui soffriamo tantissimo. Così durante la prima conversazione con Barbara e Martine ho subito detto loro che avremmo fatto dei primi piani molto stretti e con pochissimo trucco. Ed entrambe hanno avuto il coraggio e forse la follia di darmi fiducia su questo. E sul resto.

Così, tra l’altro, sono molto più belle e luminose… Ti spaventava il loro tracciato così enorme?
Credo che gli attori e le attrici abbiano un portato narrativo fatto della loro biografia e delle storie che hanno interpretato. Barbara è una leggenda del cinema indipendente tedesco e mondiale – tanto che la lista dei registi con cui ha lavorato mi ha a lungo spaventato – e sia che lo spettatore la conosca o meno, si percepisce che lei, come Nina, è fuori posto in una piccola cittadina nel sud della Francia. Madeleine invece è un’istituzione del teatro, trentaquattro anni alla Comédie Française, ma si può dire che non abbia fatto cinema. E questo mi attraeva, sapevo che sullo schermo avrebbe dato un’altra energia. Quanto a Léa Drucker, in Italia conosciuta per L’affido, la sua palette di emozioni è così ricca che ha saputo generare empatia in chi guarda, sottolineando le fragilità di un personaggio come quello della figlia che, con il procedere del film, diventa sempre più antipatico e a tratti ripugnante.

Grandioso il personaggio della badante (e la sua interpretazione): avete scelto fosse francese e non immigrata anche per evidenziare come sia condizionata da quel contesto sociale?
È stato il personaggio più divertente da mettere in scena, anche perché la sua battaglia contro Nina è la parte del film che meglio aderisce al genere. È un’attrice di Tolosa – si chiama Muriel Benazeraf, senza volerlo lo stesso nome del personaggio – e di lei mi sono innamorato fin dal provino, perché nel suo physique porta con sé l’ambiguità. Nel film non volevamo vittime e nemmeno personaggi integralmente cattivi. La badante lotta per il proprio utile, cercando di approfittare della situazione. Rispetto invece a quanto dici sul fatto che abbiamo scelto che il personaggio fosse francese, hai toccato una questione a lungo abbiamo dibattuta in sede di scrittura. Alla fine, sì, pensando che se fosse stata migrante, ci avrebbe permesso meno ambiguità per evidenti motivi, abbiamo scelto che fosse espressione di quei luoghi. Anche perché in Francia non sono solo gli immigrati ad avere difficoltà economiche.

Il film è precedente al dibattito politico attuale che muove dalla lotta all’omotransfobia e coinvolge poi molti altri aspetti. Come si approccia Due in tutto questo, tra vie altre di riflessione, dal vissuto dei corpi e dalle emozioni, dal cinema?
Tutti i film sono politici in qualche modo. All’inizio pensavo di fare un’opera su un gesto privato, per cui avevo sofferto anch’io, ma poi sia durante la lavorazione, sia man mano che il film cominciava a girare il mondo, ho percepito che dentro la nostra storia ce n’erano tante altre, come un bruttissimo rosario, sempre più terribile più si andava a ritroso. L’impegno comincia da subito, butti un sasso nell’acqua e il primo cerchio è già politica. Malgrado le grandi difficoltà a finanziarlo, il film è andato oltre ogni più rosea previsione e sebbene la situazione lì sia molto ardua, è uscito in Polonia e in Russia, uscirà in Ungheria e in Serbia.

Abbiamo parlato dello spazio delle case e finiamo con lo spazio onirico del parco, con l’omaggio all’infanzia del prologo, con gli uccelli che mi hanno fatto pensare anche a Drôle d’Oiseaux di Élise Girard, e alla possibilità che il tuo film dà a tutti personaggi di ritrovarsi nello stesso sogno…
Quando due persone si amano intensamente non hanno bisogno di parlarsi per pensare le stesse cose. L’immagine del parco è scaturita da questa idea di telepatia e dal desiderio di creare uno spazio non solo fisico, ma mentale, dove può abitare tanto l’una quanto l’altra, soprattutto quando sono forzatamente separate. Non so se è un sogno, una premonizione, di certo non è un flashback, ma è una storia di non detti, di segni a lungo ambigui e opachi, velati dalla superficie dell’acqua, è la vicenda di due bambine che giocano a nascondino e di una di loro che perde la voce. E insieme è uno spazio reale, in cui convergono anche gli altri personaggi. Del resto sono tutte immagini di cinema, con lo stesso valore ontologico: ogni cosa è vera e ogni cosa è falsa e al tempo stesso bisogna che sia tutto quanto possibile, quasi da toccare.