Un bel giorno Mirella si gira per la strada e vede una sagoma che le sembra lei, come se tra lei e la persona ignota ci fosse una parete specchiante. Stessi capelli, stesso cappotto lungo, stesse spalle dritte. La donna è di schiena, non può riconoscerne l’età, questa ipotetica somiglianza è solo virtuale, una forma di proiezione di un lato di sé sconosciuto.

Invece di voltarsi dall’altra parte e andare, continuando la sua vita come se nulla fosse, Mirella decide di seguire quella sagoma di sosia in giro per la sua stessa città. Come in un film polacco dei primi anni ’90 le strade, le vetrine, i motorini spiano come agenti segreti due donne simili, vestite quasi uguali che, senza sfiorarsi parlarsi conoscersi, percorrono un medesimo tragitto.

Come in una canzone di un noto cantautore, entrambe le donne mirano, senza saperlo, ad arrivare in tempo in un luogo dove le accoglierà qualcosa di inaspettato, non voluto. Mirella ha un vantaggio: può scegliere di non arrivare a destinazione, può deviare la strada, può decidere se scoprire il viso dell’altra o lasciarne sedimentare dentro di sé solo il ricordo.

Non è facile. Mirella è una persona quieta, mite, gentile. Senza velleità artistiche ha strutturato la sua vita con meticolosa organizzazione: giornate tutte uguali, risveglio alla stessa ora, uscita alla stessa ora, lavoro alla stessa ora, casa alla stessa ora, cena alla stessa ora, sonno alla stessa ora. Così da più di vent’anni.

La solitudine l’unico neo della sua ordinatissima e modesta esistenza. Stavolta è tutto diverso. La visione della donna che potrebbe essere come lei le ha acceso un fuoco nel petto, un divampare di sensazioni contrastanti che non ha mai provato prima, che la fanno sorridere e lacrimare insieme. Cammina veloce, gli occhi incollati alla schiena dell’altra, hanno la stessa apertura di gambe, a vederle da fuori sembrano due vagoni di un trenino manovrato perfettamente da un capotreno bambino. Mirella è sola: orfana di madre dalla nascita, orfana di padre da una decina d’anni, figlia di due figli unici, un vuoto parentale totale. Non ha compagni, fidanzati, corteggiatori. .

Mirella guarda in basso in ogni occasione, respinge la chiacchiera superficiale, Mirella ha paura degli altri. Ma non stavolta. Stavolta è la volta buona, quella in cui darà voce al suo cuore. Nell’inseguimento all’ultimo respiro pensa a una gemella strappata dalla culla e data a qualcuno in segreto, come in un romanzo ottocentesco desume indizi nel suo passato, fantastica percezioni, mai avute dal vero, di essere staccata da qualcosa: ora si spiega la solitudine forzata, il senso di inadeguatezza, il bisogno di amore.

La donna davanti sta cominciando a correre, ha fretta, sembra stanca e spaventata, a tratti si gira verso di lei ma mai completamente, non hanno modo di guardarsi negli occhi. I minuti scorrono come i metri sotto i tacchi, la velocità aumenta, tutto ruota come in una splendente giostra dei desideri e Mirella esprime il suo: «Fa che sia mia sorella». Concitate entrambe, una dietro l’altra, attaccate da un filo invisibile, si ritrovano ad attraversare una grande strada di scorrimento davanti a un palazzone abbagliante che ricorda una macchina da scrivere. La loro corsa ha una violenta interruzione.

Le due donne sono investite da un autobus che non fa in tempo a frenare. Il traffico si immobilizza. Un cerchio dentro l’altro di macchine che suonano il clacson. Il conducente del mezzo pubblico scende, stravolto, a portare soccorso.

Non c’è nulla da fare. Sono entrambe decedute. Piangendo l’uomo gira le donne sulla schiena, una alla volta: il viso in pieno sole. La somiglianza è spaventosa: nell’espressione stupita in cui le ha colte la morte sono identiche come due statue di gesso nate dallo stesso calco, due gemelle omozigote separate dalla nascita. Qualcuno chiama il 118. Altri scattano foto con il telefonino.

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