Raccontava di essere nato a Mar del Plata col padre a fumare nervosamente in cortile e un gatto sull’uscio della stanza. Lo scrittore argentino Osvaldo Soriano è stato felino, di nome e di fatto, leggermente pigro di giorno e poligrafo scatenato la notte come i pelosi micetti che ha coccolato per tutta la vita e disseminato nei suoi libri.
Da qualche mese la casa editrice pugliese LiberAria ha pubblicato un suo racconto, Nero, il gatto di Parigi, scritto nel 1989, mirato ai ragazzi tuttavia stralunato e divertente come le sue prose più famose (e illustrato coi disegni acuminati di Vincenza Peschechera, pp. 50, euro 15).

«Quando eravamo partiti da Buenos Aires non avevamo avuto il tempo di prendere le nostre cose; avevo dovuto lasciare laggiù un triciclo e un lungo trenino elettrico che facevo correre tra montagne, boschi e fiumi, tutto sul tavolo della sala da pranzo. Ma quello che più mi era dispiaciuto era stato lasciare Pulqui, che la notte dormiva con me raggomitolata fra le mie gambe come una pallina calda, fino al mattino dopo, quando mi svegliavo alla solita ora per andare a scuola».

Al bambino solitario in terra straniera, in una Parigi innevata e sconosciuta, viene preso un gatto tutto nero «con occhi rotondi come padelle e baffi lunghi come canne da pesca», un animale domestico per tenergli compagnia e non fargli rimpiangere troppo quella Pulqui che aveva dovuto lasciare in patria (ovviamente Pulqui è il nome del primo gatto della famiglia dello scrittore poi sostituito da Peteco, Virgula e altri che gli avrebbero suggerito la conclusione di Triste, solitario y final, il suo capolavoro).

Subito scatta un’intesa nascosta fatta di sguardi, miagolii e carezze, quell’inevitabile complicità tra due randagi che devono superare la diffidenza, le distanze, l’isolamento. Girovagando per i boulevard, salendo sui tetti e correndo ancora più in alto fin sopra quel mostruoso traliccio d’acciaio, il bambino e il gatto possono vivere l’avventura più fantastica.
Attraverso quelle pupille fosforescenti che s’ingrandivano e si chiudevano, si possono avverare i propri desideri, i sogni più insospettabili, volando con la fantasia dentro la casa di suo zio in Argentina o nello stadio del Boca Juniors o in quel negozio di dolciumi coi torroni al cioccolato. Ma principalmente cullare la speranza di tornare un giorno nel paese natìo, in quella nazione misteriosa, quello stretto territorio tra Patagonia e Antartide che il padre gli mostrava regolarmente dispiegando una grande carta geografica sul tavolo da pranzo, parlando di Belgrano e San Martìn, Yrigoyen e Peron, tutti personaggi importanti per i compaesani di Gardel, Guevara e Maradona. Dove un giorno, restaurata la democrazia nel 1983, tornerà indietro dall’Europa (dove si era rifugiato per sfuggire ai sicari di Videla) anche Soriano, il centravanti del Cipolletti prestato alla letteratura, prima che i gatti lo chiamassero definitivamente nel giardino dell’eden, in quel lontano 1997.