Conosciuta dal pubblico internazionale soprattutto grazie ai suoi film degli anni ’’80 e ’90 come Suspended Life e Once Upon a Time in Beirut, la regista di origine libanese Jocelyne Saab comincia il suo cammino come giornalista durante gli anni Settanta. La devastazione che colpisce il suo Paese, in particolare la sua città Beirut, dal 1975 in poi, con la guerra civile che finirà di fatto solo nel 1990, la spinge a realizzare alcuni documentari coi quali prova a dare un senso a quel paesaggio di rovine e di morte.

 

 

Al Yamagata International Documentary Film Festival – che si è da poco concluso – è stata presentata la tetralogia di documentari realizzati da Saab tra il 1975 il 1982 che rappresentano non solo una riflessione sempre attualer sulla violenza e sulle tensioni che infuocano e traversano il Medio Oriente, ma permettono anche di vedere la crescita di Saab come filmmaker.
Il suo primo documentario è Lebanon in Turmoil ( 1975), uno spaccato del Paese nel momento in cui inizia la guerra civile a cominciare dai contrasti religiosi ed economici originati dal colonialismo, e acuiti dopo l’invasione della Palestina dal’esodo dei palestinesi in Libano. L’incredibile frammentazione settaria tra i vari strati della popolazione si riflette nelle voci che il film raccoglie: api religiosi come il vescovo dei Maroniti, un membro del partito comunista, il leader del partito falangista, poeti e giornalisti.

 

 

Questa mappatura delle spaccature e della violenza che ne conseguì prende forma nel successivo in Beirut, Never More (1976. Edifici rasi al suolo, un territorio quasi surreale nella sua veritiera follia dove a muoversi per le strade si vedono solamente bambini che cercano cibo o qualunque altra cosa possa loro servire, mentre fuoricampo scorrono le perole recitate dal poeta Etel Adnan.
GIà dagli esordi dunque Saab non cerca la neutralità dello sguardo ma compone il suo cinema mettendosi in gioco e portando in primo piano la sua visione personale delle cose, una visione che nei lavori successivi diventerà sempre più predominante. Questa progressione appare con evidenza in Letter from Beirut (1978), fin dalla forma che la regista decide di dare al suo film, un cine-poema strutturato come una lettera scritta per ricordare la sua amata città e al tempo stesso per descriverne le tensioni che sta vivendo. Ancora una volta le immagini sono accompagnate dalle parole di Adnan in un lavoro dove fiction e documentario si sovrappongono creando una sorta di cortocircuito in cui l’orrore della devastazione non sembra, non può sembrare, reale.

 

 

E invece questo orrore, la morte e gli attacchi si intensificarono nella seconda metà del decennio con l’intervento militare siriano e il primo intervento armato di Israele fino all’invasione nel 1982. Quasi in reazione a questa escalation bellica lo stile di Saab si trasforma ancora diventando quasi più sperimentale e cinematografico senza però rinunciare alla denuncia e alla rappresentazione della tragedia.
Nell’ultimo film di questa sua informale tetralogia, Beirut, My City (1982) la regista entra direttamente nell’inquadratura fin dalla primissima scena in cui col microfono in mano la vediamo dentro ad una casa completamente distrutta. Si tratta della villa della sua famiglia, costruita più di centocinquant’anni prima e ora ridotta a un ammasso di macerie dopo un feorce attacco dell’esercito israeliano.
Con l’accompagnamento di un sassofono, le immagini del presente di morte e quelle dei campi di rifugiati comincia a prender forma uno dei tratti che più caratterizzeranno il suo cinema a venire, l’importanza del ricordo di ciò che non c’è più e la consapevolezza che le immagini «documentarie» non siano capaci di catturare la realtà del vissuto.

 

 

Questa vera e propria filosofia in forma di cinema troverà piena espressione nel 1994 in Once Upon a Time in Beirut, anche questo proiettato a Yamagata, lavoro di fiction complesso e stratificato dove la storia della capitale libanese affiora tra gli spezzoni dei film e gli immaginari con cui è stata rappresentata nel corso dei decenni in patria e all’estero. Un film ancora oggi freschissimo e che non ha perso niente della sua forza originale, anzi, in un era in cui l’ossessione per l’immagine è al suo apice, le sue visioni si rivelano ancora più potenti.