I bambini nati all’estero tramite la pratica della maternità surrogata non possono essere trascritti all’anagrafe italiana come figli della coppia dei genitori putativi, anche se riconosciuti come tali da un giudice straniero. È quanto ha stabilito, per effetto della legge 40 sulla procreazione assistita, la Cassazione che con la sentenza n. 12193 pubblicata ieri ha rigettato la domanda di una coppia di uomini di Trento, sposati in Canada, di riconoscere l’efficacia di un provvedimento riguardante i loro due figli, concepiti da uno dei due sposi tramite il cosiddetto «utero in affitto» messo a disposizione gratuitamente da una donna canadese, e con ovociti prelevati da un’altra donatrice.

Secondo quanto puntualizzato dagli stessi giudici dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, però, il fatto che in questo caso si tratti di una coppia omosessuale non ha alcuna rilevanza: il giudizio è stato emesso solo per applicazione di uno degli ultimi divieti rimasti in piedi imposti dalla legge 40/2004, che all’art. 12, comma sesto, nega la possibilità di ricorrere alla maternità surrogata.

In altre circostanze, infatti, ricordano gli ermellini, la stessa Cassazione aveva iscritto all’anagrafe bambini nati all’estero tramite fecondazione eterologa come figli di coppie omosessuali. In quei casi però si trattava di due madri, ciascuna delle quali aveva col nascituro un «rapporto biologico» «in quanto – spiega la Cassazione – una lo aveva partorito, mentre l’altra aveva fornito gli ovuli necessari per il concepimento mediante procreazione medicalmente assistita».

Nel caso della coppia gay di Trento, invece, secondo i giudici cassazionisti, «non può essere trascritto nei registri dello stato civile italiano il provvedimento di un giudice straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e un soggetto (quello, tra i due coniugi, i cui gameti sono estrenei al concepimento, ndr) che non abbia con lo stesso alcun rapporto biologico (il cosiddetto “genitore d’intenzione”)».

In nessun caso però, sottolineano ancora i giudici, è «in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore di intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale né l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo “status filiationis”, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore».