Non è certamente un selvatico in via di estinzione – a differenza di tante altre specie decimate da caccia, cambiamenti climatici, sconvolgimento degli habitat, incendi. Non è un essere da compagnia – anzi è l’opposto di un grazioso pet. Non è un animale da reddito – al contrario fa danni, salvo al mondo venatorio. Insomma ha tutto per non piacere, il cinghiale. Ci si dimentica, così, che anche questo ungulato soffre quando viene impallinato o investito, quando è tormentato dai parassiti, quando ha sete e fame. Dal punto di vista della legge, tutta la fauna selvatica è patrimonio dello Stato a norma della 157/92, che varie forze «vorrebbero smantellare, svuotandone l’impianto che si fonda sulla tutela primaria degli animali, salvo le eccezioni previste dalle norme», denuncia Massimo Vitturi, responsabile Area selvatici per la Lav.

SAREBBERO 2,3 MILIONI I CINGHIALI IN ITALIA secondo la Coldiretti, che a luglio ha organizzato manifestazioni in tutta la penisola e diffuso il dossier Covid e l’assedio dei cinghiali in Italia: «L’emergenza sta provocando l’abbandono delle aree interne, problemi sociali, economici, ambientali e per la salute». Gli ungulati invadono le campagne e si spingono nelle città, causano perdite alle produzioni agricole, determinano centinaia di incidenti stradali con morti e feriti. E si evocano i rischi legati alla propagazione di epizoozie come la peste suina africana, minaccia per la zootecnia. Così, agli inizi di novembre, in commissione agricoltura della Camera, la Conferenza delle regioni e delle province autonome ha avanzato sette proposte di intervento urgente «per il ripristino degli equilibri ambientali», ritenendo che il «quadro normativo nazionale è superato». Le regioni chiedono fra l’altro di rafforzare ed estendere il «prelievo contenitivo» degli ungulati anche nelle zone protette e in quelle percorse da incendio. Insorge la Lav: la proposta «sembra scritta dalle frange più estremiste dei cacciatori» e recherebbe pregiudizio «anche a tutte le altre specie animali protette e non cacciabili».

QUALI LE CAUSE DELL’EMERGENZA? Uno sguardo alla Francia: per l’Association pour la protection des animaux sauvages, la «ricetta perfetta» per l’esplosione del numero di cinghiali nell’Esagono – da poche decine di migliaia negli anni 1960 a oltre un milione attuali – «è data da un insieme di fattori fra caccia e agricoltura. Da un lato, la rarefazione dei piccoli animali cacciabili, in gran parte per l’agricoltura intensiva, ha rafforzato l’interesse delle doppiette per i cinghiali. Li hanno allevati e immessi sul territorio, praticando una caccia selettiva che risparmiava le femmine riproduttrici, e intanto gli agricoltori accettavano i danni alle colture grazie agli indennizzi. Si aggiungano condizioni climatiche propizie, la scomparsa di predatori naturali, e la capacità dei cinghiali di accelerare la propria riproduzione in reazione a certe modalità di caccia. Importante: le enormi estensioni a mais, amatissimo dai cinghiali, hanno fornito loro molto cibo». Le colture di mais e soia, destinate quasi totalmente agli allevamenti, offrono carburante alla proliferazione… «Dunque, il cammino verso un modello alimentare eco-etico offrirebbe qualche soluzione anche a questo problema…», lancia l’esperto della Lav.

SPIEGA PIERO GENOVESI, ZOOLOGO, RESPONSABILE del servizio di coordinamento Fauna selvatica di Ispra: «E’ cambiato il contesto ambientale: l’Italia ha avuto una profonda trasformazione nei decenni. Sono aumentati i boschi e le aree incolte. I terreni di montagna e collina abbandonati sono l’habitat perfetto per i cinghiali. A livello di città, poi, c’è la gestione dei rifiuti. I cinghiali sono adattabili, se ne nutrono». E prolificano. Sottolinea Andrea Brutti, responsabile dell’Ufficio tutela fauna per l’Enpa – Ente nazionale protezione animali: «Gli incidenti stradali sono spesso causati dalla frammentazione dell’ambiente: gli animali attraversano per raggiungere la fonte di acqua, occorrono opere di prevenzione. In città, poi, gli animali si presentano vicino a palazzi che sono a ridosso di aree verdi e con i loro rifiuti alimentano i selvatici. E anche in campagna, ecco i cassonetti dell’umido a disposizione».

LA CACCIA E’ UN CIRCOLO VIZIOSO. Piero Genovesi: «Da un lato vengono ancora operati rilasci, ormai illegali: vediamo comparire ancora oggi gruppi di cinghiali in contesti, per esempio sulle Alpi, dove è chiaro che si tratta di immissioni. Dall’altro, i piani di prelievo non vengono completati perché una parte del mondo venatorio cerca di gestire la specie in modo da garantirsi una popolazione abbastanza numerosa tutti gli anni. E poi i cacciatori tendono a concentrarsi sui maschi adulti anziché su femmine e giovani. Da un ampio studio di vari ricercatori europei è emerso che se si fanno abbattimenti molto sbilanciati, l’attività venatoria può portare a un aumento delle popolazioni».

INTORNO ALLE DOPPIETTE RUOTANO ANCORA INTERESSI FORTI, e uccidere gli animali a casaccio peggiora la situazione: Massimo Vitturi cita uno studio «relativo alla provincia Verbania Cusio Ossola: hanno suddiviso il territorio in tre aree, consentendo la caccia normale al cinghiale in due aree, nella terza vietando la caccia e consentendo l’abbattimento ma solo su chiamata. In quella parte, gli animali uccisi si sono ridotti di più della metà e al tempo stesso i danni si sono quasi azzerati». Inoltre, per Andrea Brutti, «le forme di caccia in girata o braccata, che si facevano perfino durante il lockdown, provocano la dispersione del branco; se si uccide la matriarca che controlla l’estro delle altre femmine, si formano tanti altri branchi riproduttivi»; ed «è paradossale che ancora esistano allevamenti di cinghiali a scopo di ripopolamento». Un documento di Wwf Abruzzo, nell’attaccare la «pessima gestione faunistico-venatoria» ricorda le «scriteriate immissioni di cinghiali provenienti dall’Est Europa nel passato e l’aumento dei periodi di caccia». Certo il fiorente mercato della carne di cinghiale (legale e parallelo) non aiuta l’obiettivo di contenere davvero la proliferazione. Le organizzazioni agricole, come Cia-Agricoltori italiani e Coldiretti, oltre a sollevare da tempo il problema dei risarcimenti – tardivi, mancati o sottostimati – chiedono la regia delle istituzioni per mettere a punto piani faunistici di riduzione numerica e spaziale che prevedano l’istituzione di un corpo speciale con licenza di caccia per il controllo e il contenimento, anche a opera degli agricoltori, e un’estensione del calendario venatorio. Ma è questa la strada, malgrado gli insuccessi degli ultimi anni? Per Genovesi dell’Ispra, «occorre, come diciamo da tempo, un sistema integrato, con l’impegno di tanti attori (enti locali, parchi, agricoltori, cacciatori) per misure di prevenzione, riduzione dei danni, anche con abbattimenti o rimozioni…E limitare il cibo a disposizione, e quanto agli incidenti segnalare i punti a rischio; poi in certi casi si tratta anche solo di compensare i danni».

CHE FARE? IL CONTROLLO TRAMITE LA CONTRACCEZIONE si impone, secondo la Lav. «Dopo 15 anni di caccia illimitata al cinghiale, dovrebbe essere chiaro che il metodo venatorio è un fallimento sotto ogni aspetto, primo responsabile dell’incremento numerico dei cinghiali con i danno che ne conseguono. Un’evidenza che sembra sfuggire alle amministrazioni regionali e nazionali» denuncia la Lav, chiedendo allora «al Ministro Cingolani di attingere ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza per finanziare la messa a punto del vaccino immuno-contraccettivo, una possibilità non cruenta di agire efficacemente sulla consistenza numerica dei cinghiali». Per Andrea Brutti dell’Enpa, «l’immuno-contraccezione è una pista interessante anche se non può sostituire altre misure di prevenzione. Oltre a un censimento super partes dei cinghiali e alla previsione di rimborsi adeguati, chiediamo alle istituzioni preposte: zero allevamenti della specie, zero immissioni abusive, interventi ambientali sul lato delle risorse a disposizione, presidio del territorio, controlli stringenti sul commercio della carne, tutela degli habitat boschivi per evitare fuoriuscite, progetti – già avviati – in grado di azzerare gli incidenti, sperimentazioni contraccettive in ambienti circoscritti, recinzioni elettrificate ben fatte». Le quali comunque, secondo Angela Garofalo responsabile settore zootecnico della Cia, «sono inadeguate sia per le densità raggiunte che per la scarsità di risorse, oltre a essere difficilmente applicabili per grandi estensioni e inadatte alle attività multifunzionali delle aziende agricole».

QUALI TECNICHE DI CONTROLLO DELLA FERTILITA’ sono già in campo per la specie dei cinghiali? Chiarisce Piero Genovesi: «Quelle chirurgiche hanno effetto permanente ma si tratta di un intervento quasi sempre impraticabile. Si può poi agire con inibitori ormonali o con vaccini, con un effetto non permanente – si pensa di 4-6 anni. Finora l’unica tecnica per somministrare i vaccini immuno-contraccettivi è l’iniezione, anche tramite dardi – ma questo significa doversi avvicinare a pochi metri. Da anni si sta cercando la formula per rendere il vaccino erogabile per via orale, con un’ esca alimentare in apposite mangiatoie. Bisogna proteggerlo dall’azione distruttiva dei succhi gastrici. La sfida è molto grande: la somministrazione dovrebbe essere selettiva per questa specie e poi arrivare a una proporzione molto ampia della popolazione».

UNO STUDIO PUBBLICATO SU «PLOS ONE» al quale ha collaborato anche Ispra ha concluso che con i limiti delle tecniche attuali di somministrazione, se anche si arrivasse a sterilizzare con un immuno-contraccettivo l’80% dei cinghiali in un’area, non si riuscirebbe comunque a contenere le popolazioni di cinghiali. Lo stesso studio ha trovato che combinando abbattimenti e contraccezione il risultato era più incoraggiante. La sterilizzazione può intanto essere utilizzata in un’area limitata, dove si riesca a catturare tutti gli individui. Il sistema per fornire l’esca alimentare medicata con il vaccino è già stato prodotto ed è funzionante, con un dispenser apribile solo da cinghiali. Ma sviluppare il vaccino somministrabile per via orale richiede molte risorse. Qualche briciola dei miliardi del Pnrr ci penserà?