Un nuovo rinvio, il ventisettesimo, ma qualcosa nel caso dei due fucilieri di Marina in India è cambiato davvero. Nell’udienza lampo davanti alla Corte suprema indiana l’accusa ha formalizzato – senza entrare nei dettagli – la decisione di chiedere l’applicazione del Sua act, la legge anti pirateria, escludendo nel contempo il rischio della pena di morte.

Un artificio legale che, secondo le indiscrezioni, sarebbe messo in atto accusando Salvatore Girone e Massimiliano Latorre di «violenza contro l’equipaggio di un’imbarcazione», capitolo «a» dell’articolo 3 della legge, per una pena massima di 10 anni di detenzione. Rinunciando all’accusa di omicidio, il procuratore generale Vahanvati toglierebbe dal panorama dell’ipotetico, una volta per tutte, lo spauracchio della pena di morte. Non è da escludere che l’accusa possa procedere contro i due marò per l’omicidio – intenzionale o colposo – di Ajesh Binki e Valentine Jelastine, presentando l’impegno ufficiale del governo indiano a non contemplare la pena di morte nel dibattimento, evitando grattacapi burocratici.

Pena di morte o meno, il Sua act per l’Italia rappresenta una scelta «inaccettabile», parafrasando un tweet del presidente del consiglio Enrico Letta, poiché equiparerebbe i due militari in servizio anti pirateria a due pirati. Questa la risposta formale e indignata degli esponenti del governo italiano, col ministro degli Esteri Bonino che, respingendo l’idea di un’Italia «paese terrorista» in virtù della sentenza, minaccia – tra le strade legali percorribili – un ricorso italiano al Tribunale del Mare dell’Onu. Il pool di giudici della Corte suprema si pronuncerà in merito il 18 febbraio, quando sul piatto della bilancia peseranno anche le obiezioni mosse dalla difesa dei marò, che ha sottolineato come ricorrere al Sua act sia in contrasto con la precedente sentenza della Corte suprema del gennaio 2013 (la legge anti pirateria, all’epoca, non era contemplata) e ribadito la richiesta di rimpatrio di Latorre e Girone fino al termine delle indagini.

Le motivazioni che hanno spinto l’accusa ad abbracciare una legge così «dura» potrebbero essere molteplici: un eccesso di aderenza alla burocrazia che lega la National Investigation Agency (Nia) all’utilizzo di leggi federali anti terrorismo; la rappresaglia per il mancato rispetto degli impegni presi dall’Italia circa la deposizione degli altri quattro marò, interrogati in via telematica dall’ambasciata indiana a Roma (che si aggiunge all’imbarazzante gestione Terzi del ritorno in India dei marò nel febbraio 2013); mostrare all’elettorato un’India governata dall’Indian National Congress (Inc) dell’«italiana» Sonia Gandhi come un paese intransigente, in vista delle politiche imminenti; creare un precedente intimidatorio, per ituazioni analoghe future che possono coinvolgere terroristi pakistani o le guardie costiere cingalesi e bangladesi, che pattugliano territori contesi. Rimane il fatto che il caso Enrica Lexie, a quasi due anni dall’arresto dei marò, rischia di essere fagocitato dalla campagna elettorale in corso, con l’Inc alla ricerca di consensi e la destra indiana del Bharatiya Janata Party (Bjp) pronta ad accusare di favoritismi Sonia Gandhi.

Analizzando il testo del Sua act, le ragioni dell’opposizione italiana alla legge anti pirateria – versione indiana di una Convenzione internazionale, ratificata da India e Italia – hanno dei risvolti più strategici che di facciata.
L’articolo 13 prevede la cosiddetta «inversione dell’onere della prova»: in presenza di indizi di colpevolezza sostanziali come la prova di ricorso alla forza letale e il sequestro di armi da fuoco e proiettili compatibili coi fori repertati sulla scena del crimine – elementi che l’India dice di avere in proprio possesso – «la Corte dovrà presumere, se non sarà provato il contrario, che gli accusati abbiano commesso il reato». Un’eventualità che, visto il contesto probatorio decisamente ingarbugliato, l’Italia ha intenzione di scongiurare con ogni mezzo.